Padovano a bordo della Sumud Flotilla: «Dai militari israeliani botte e strattoni»

Lorenzo Bresciani, 29 anni, racconta la cattura e la detenzione in Israele: «Siamo stati maltrattati fisicamente e abbiamo subito pressioni psicologiche»

Alice Ferretti
Lorenzo Bresciani
Lorenzo Bresciani

Solo ieri è tornato in Italia Lorenzo Bresciani, 29 anni, specializzando in Neurologia all’Università di Padova e originario di Massa. Era a bordo di una delle otto imbarcazioni della missione “Thousand madleens to Gaza” (la seconda flotilla), intercettata dall’esercito israeliano mercoledì scorso in acque internazionali, mentre cercava di rompere il blocco navale imposto su Gaza. Per due giorni Bresciani è stato detenuto in Israele.

Dottore, cominciamo dall’inizio. Quando è partito e con quale obiettivo?

«Sono partito il 27 settembre da Augusta, in Sicilia, come volontario medico a bordo della “Soul of my soul”, una delle barche a vela della missione. Si tratta di un’iniziativa civica, legale e non violenta, non affiliata a partiti politici. L’obiettivo era denunciare l’illegalità del blocco navale imposto da Israele su Gaza. Hanno partecipato sanitari, giornalisti, deputati, attivisti e ovviamente skipper. Nella nostra barca eravamo in sei, io ero il medico».

Com’è stata la traversata?

«Fino all’8 ottobre, giorno dell’abbordaggio, è andata bene. Eravamo preparati, ognuno con un ruolo specifico. Avevamo studiato dei protocolli precisi in caso di intercettazione. È successo verso le 5 del mattino. Io stavo dormendo, mi hanno svegliato, l’esercito israeliano si stava avvicinando».

Come si è svolto l’abbordaggio?

«Ci siamo messi tutti sul ponte, con le mani in alto, in silenzio. L’approccio è stato aggressivo, con le armi puntate. Ci hanno chiesto nome e nazionalità, ma anche domande provocatorie a cui abbiamo scelto di non rispondere, per non inasprire la situazione. Siamo stati perquisiti, portati su una loro nave, fatti inginocchiare, a capo chino. Niente possibilità di parlare. Dopo una ventina di minuti ci hanno chiuso in cabine da 5 o 6 persone. Pane e acqua, un bagno. Sempre sorvegliati con armi in pugno».

Dove vi trovavate esattamente quando siete stati fermati?

«A circa 120 miglia da Gaza, in acque internazionali».

Cosa è successo una volta arrivati in Israele?

«Siamo sbarcati al porto di Ashdod verso le sei di sera. Appena scesi, ci hanno preso per le braccia, a testa bassa, ci hanno spinti sul molo. C’erano anche giornalisti e media israeliani. Siamo stati costretti a restare inginocchiati per un’ora. Alcuni sono stati colpiti sulla nuca o sulla schiena con le mani, a me personalmente non è successo. Ci dicevano cose come: “Avete visto? Alla fine siete arrivati a Gaza”».

Poi siete stati trasferiti?

«Sì, al centro immigrazione. Durante l’attesa ci tenevano con le braccia torte dietro la schiena, anche per due ore e mezza. Intorno musica israeliana ad alto volume, canti, balli. Era un modo per esercitare pressione psicologica. Non c’era alcuna attenzione per età o condizioni fisiche».

Ha avuto modo di parlare con un avvocato?

«Sì, brevemente. L’accusa formale era di ingresso illegale in Israele. Poi siamo stati trasferiti nel centro di detenzione. Lì ci hanno ammanettati con fascette da imballaggio, bendati, senza sapere dove saremmo stati portati».

Com’erano le condizioni in prigione?

«Durissime. Otto persone per cella, pochi materassi o brandine di ferro, un solo bagno, un solo rubinetto da cui dovevamo anche bere. Il cibo veniva dato in scodelle appoggiate a terra: pane, formaggio cremoso, pomodori. Nessuno ha avuto accesso a medicinali, nemmeno chi ne aveva bisogno per motivi vitali. Le nostre cose personali sono state sequestrate. Alcuni di noi sono stati maltrattati fisicamente, spintonati, tirati per la maglietta. Durante la notte, ci svegliavano col manganello sulle sbarre o accendendo e spegnendo la luce. Ci chiedevano se fossimo amici di Hamas».

Quanto è durata la detenzione?

«Due notti. Il 10 ottobre siamo stati rilasciati dopo l’udienza davanti a un giudice. Ci hanno condotti all’aeroporto di Ramon, quattro ore di viaggio in un blindato. Poi finalmente il ritorno a casa».

C’è stato un momento in cui ha avuto paura?

«Certo. Ma eravamo preparati, non ci siamo fatti prendere dal panico. Abbiamo cercato di restare uniti e calmi. Il sostegno reciproco è stato fondamentale».

Lo rifarebbe?

«Sì. Lo rifarei. Mi ha spinto una motivazione etica e morale. Era giusto esserci. Anche un gesto simbolico può aiutare a tenere alta l’attenzione su questa enorme ingiustizia. Non abbiamo fatto nulla di illegale, il nostro era un atto civile, pacifico, umanitario. Ma ci hanno trattati come criminali». —

 

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