Cosa succede in Veneto se i medici di medicina generale diventano dipendenti pubblici

Al lavoro negli ambulatori medici si affiancherebbe quello all’interno delle case di comunità, che poi è anche la ragione alla base del provvedimento. Zaia: «Diventino dipendenti pubblici». Ottocento nuovi assunti entro il 2027. Quattrocento le zone carenti

Laura Berlinghieri

L’Autonomia in ambito sanitario. Là dove non arrivano gli accordi tra Stato e Regioni – anche dopo la “buona notizia” della Corte Costituzionale, di tavoli romani non si è vista nemmeno l’ombra – allora arriva il governo. Con ventidue pagine che, per la medicina generale, hanno il sapore di rivoluzione.

Una bozza di legge che porta la firma del ministro Orazio Schillaci e che è stata “vidimata” dalle venti Regioni italiane. Vigilia della rivoluzione per il settore: se il progetto diventerà effettivamente un mattone della legislazione italiana, significherà che, d’ora in avanti, i medici di medicina generale diventeranno dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Al pari dei loro (quasi) colleghi ospedalieri. E quindi 36 ore settimanali. E quindi Inps, e non più Enpam.

E quindi, soprattutto, il lavoro negli ambulatori medici che si affiancherà a quello all’interno delle case di comunità, che poi è anche la ragione alla base del provvedimento. Per evitare di veder sorgere 1.350 cattedrali nel deserto, costate la bellezza di 2 miliardi di euro dal Pnrr.

La posizione della Regione Veneto

Il presidente Luca Zaia spinge: «Non abbiamo mai fatto mistero di essere tra i proponenti di questa novità» dice. E quindi spiega: «Chiediamo di assumere i nuovi medici di famiglia, con contratti di lavoro di 36 ore a settimana. Chiediamo che facciano i medici di base a tempo pieno. Nessuna richiesta, invece, sui dottori di famiglia che già lavorano», che in Veneto sono 2.700.

E poi la carezza a questi professionisti: «Nulla contro di loro, anzi. Vogliamo discutere con loro qualsiasi ipotesi di riforma. Anche perché sono la colonna portante dell’offerta sanitaria». Ma non ce ne sono abbastanza. «Circa 400 zone carenti in tutto il Veneto» è il calcolo, a spanne, dall’assessora veneta alla Sanità Lanzarin.

Con precisazione del presidente: «Non è che manchino, è che non tutti sono massimalisti». Chi perché professionalmente troppo giovane, chi perché legittimamente preferisce non “tirare” al massimo, chi perché affianca all’attività ambulatoriale altri tipi di servizi sanitari. «E quindi non abbiamo un numero di medici di medicina generale sufficiente a coprire le aspettative dei nostri mutuati» spiega Zaia.

E quindi mancano 400 dottori di base. Già ora. Figurarsi cosa accadrà quando, entro l’anno prossimo, dovranno entrare in funzione le 95 case (anzi, 99: così ha deciso la Regione) e i 35 ospedali della comunità. «Hub in grado di erogare prestazioni sette giorni su sette e ventiquattr’ore su ventiquattro» spiega Lanzarin. Nati con i soldi del Pnrr.

Dovranno lavorarci, a turno, i medici di medicina generale. Ma questi, appunto, mancano. Anche perché, racconta l’assessora, «nell’ultimo corso di formazione attivato, c’erano più borse di studio che candidati». Entro il 2027, saranno formati altri 800 nuovi medici di famiglia, «ma non è detto che tutti loro proseguiranno lungo il percorso intrapreso». C’è chi deciderà di specializzarsi in altre branche: è l’esperienza a raccontarlo.

Il nodo delle strutture di comunità

Ma un modo, per fare funzionare queste case e questi ospedali di comunità, bisognerà pur trovarlo. Un modo per reclutare i medici di base, che vadano a lavorare in queste strutture, punti di riferimento sanitari ogni 50 mila abitanti. «Nell’accordo collettivo nazionale che regola il rapporto tra medici di medicina generale e Regioni è stabilito che i dottori debbano garantire 38 ore a settimana all’interno delle aggregazioni funzionali territoriali» precisa Lanzarin. Di queste, 20 per i propri assistiti, mentre la gestione delle rimanenti 18 è a descrizione dell’azienda sanitaria.

La materia è complessa e la matassa ben lontana dall’essere sbrogliata. La politica preme; il settore, pure, anche se forse dall’altra parte. La novità, questa volta, è che c’è un limite: il 2026. Per non dissipare la pioggia di miliardi in arrivo dall’Europa e rivoluzionare un settore che, così com’è, non accontenta nessuno.

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