Mestre, le lettere di Taliercio durante la prigionia

Dagli scatoloni del Tribunale di Venezia spuntano anche gli oggetti dell'ingegnere ucciso dalle Brigate Rosse nel 1981

VENEZIA. Tutto finì e si sgonfiò. La proverbiale invincibilità delle Brigate rosse, la formazione terroristica più temibile negli anni di piombo, commise un errore gravissimo perché il 17 dicembre 1981 il troncone veneto-friulano capeggiato da Antonio Savasta rapì a Verona il generale James Lee Dozier, americano e comandante Nato per l’Europa meridionale. E fu il suicidio per le Br, sgominate in poche settimane perché Dozier venne liberato vivo a Padova a fine gennaio e Savasta parlò.

Da questi fatti ebbe origine uno dei giorni più drammatici che la cronaca udinese abbia registrato nel dopoguerra, con vicende riportate alla memoria da un servizio apparso ieri sul settimanale “Il Venerdì di Repubblica” dove si svelano le “lettere dal carcere” dell’ingegner Giuseppe Taliercio durante i 47 giorni trascorsi in quella che i terroristi chiamavano la “prigione del popolo”. Documento eccezionale sotto più punti di vista, per far luce sul sequestro e sullo stoicismo del rapito fino alla morte, nel luglio del 1981: lo tennero segregato nella soffitta di due ignari anziani di Tarcento, trasformata in luogo di sevizie. Quando fu fatto trovare il corpo senza vita, dopo essere stato riportato a Marghera, una telefonata all’Ansa comunicò: «Qui Br: vicino al Petrolchimico troverete il porco Taliercio in una 128 chiara».

Il 4 febbraio 1982 il ministro dell’interno Rognoni diede la notizia che l’ingegnere era stato tenuto ucciso a Tarcento e due giorni prima a Udine erano scattati altri poderosi allarmi. Storie anche diverse, ma che, assieme alla rivelazione sulla prigione di Tarcento e sull’origine friulana di molti arrestati, suscitarono stupore e sensazione confermando l’impressione sul fatto che la nostra regione era stata una sorta di retrovia dove reclutare adepti, eclissarsi, allestire luoghi protetti, ovvero i covi come allora venivano chiamati. Forte preoccupazione era stata provocata dal ritrovamento in un appartamento di piazzale Cella di documentazione con le schede di personaggi (politici, industriali, giornalisti) finiti nel mirino. Il che richiese contromisure con scorte e protezione di luoghi sensibili, in un’atmosfera difficile da immaginare al giorno d’oggi. La vita era diventata blindata con l’angoscia accresciuta dai “bollettini di guerra” diffusi da giornali, tv e radio su uccisioni (390 in quegli anni), ferimenti, sequestri.

Il 2 febbraio 1982 cominciò presto a Udine con un allarme in via Roma dove i passanti segnalarono un rapimento. Mascherati scesi da un’auto vi avevano fatto salire un uomo uscito da un tabacchino. Ore dopo si chiarì che si trattava di un’operazione per l’arresto di Vanni Mulinaris, 36 anni, laureato nel’68 a Trento, amico di Renato Curcio (fondatore delle Br), figlio di una nota dinastia di pastai, tornato per alcuni giorni a casa in via Ciconi da Parigi dove viveva ed era tra i fondatori della scuola di lingue Hyperion, che giudici di Venezia e di Roma ritenevano fosse il “grande vecchio”, ovvero il luogo da dove si guidavano le Br. L’arresto suscitò sensazione in città per la notorietà del professore e della famiglia. Mesi dopo, dopo un periodo di detenzione in vari carceri, Mulinaris venne messo ai domiciliari, dai quali sparì improvvisamente nel 1985. In seguito fu prosciolto completamente, ma già nel 1983 si mosse per chiederne la liberazione un folto comitato di intellettuali francesi e italiani guidati dal famoso Abbè Pierre, fondatore della comunità Emmaus.

Ma quel 2 febbraio non era finito perché nel primo pomeriggio nuova emergenza a Sant’Osvaldo dove, dopo una sparatoria davanti all’ospedale psichiatrico, vennero arrestati il professore udinese Gianni Francescutti e la trevigiana Marina Bono. Nel servizio pubblicato ieri su “Il Venerdì” si legge una ricostruzione di come avvenne nel maggio ’81 il rapimento di Taliercio a casa del quale si presentarono Savasta, Francescutti, Pietro Vanzi e Francesco Lo Bianco. «Francescutti – è riportato nell’articolo – indossava la divisa grigia della Finanza. E fu lui a bussare all’appartamento e chiedere dell’ingegnere». Dopo gli arresti, Savasta e gli altri decisero di collaborare con la giustizia permettendo di smantellare la struttura brigatista nelle nostre zone e ottenendo sconti di pena. Già quel 2 febbraio polizia e carabinieri effettuarono altri 9 arresti e scoprirono 4 covi, di cui 2 a Udine, uno dei quali in viale da Vinci.

Il 4 febbraio il ministro chiuse quei giorni annunciando che era stata allestita a Tarcento la prigione di Taliercio. Savasta confessò di essere stato lui a ucciderlo ritenendo l’ingegnere colpevole per le morti avvenute nel Petrolchimico di Marghera. Di fronte alle accuse, come si legge nelle lettere ora svelate, l’ingegnere fece una lezione di chimica, ma non si salvò ugualmente. Va pure detto che il rapimento di Dozier, rivelatosi letale per le Br, non era di alcuna utilità in quanto nessun terrorista parlava l’inglese e dunque non ci fu “processo”. L’azione aveva solo carattere propagandistico, segnando la fine delle Brigate.

Nell’evocare tali tragedie, riemerge sempre l’interrogativo posto da un grande cronista come Giorgio Bocca: «Nessuno di noi che c’è passato ha capito come e perché in quegli anni siamo caduti nelle convulsioni del terrore e dell’odio politico senza tregua». —

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