Otto nipoti e la vedova di Angelo Ferro in guerra per l’eredità

Diffida legale per contestare la suddivisione dell’assicurazione sulla vita da 10 milioni che il professore ha destinato agli eredi
PADOVA. Imprenditore, docente universitario, al vertice di gruppi editoriali importanti (Rcs-Corriere della Sera) come di istituti bancari e dell’Associazione industriali e, ancora, una carica diplomatica, sia pure onoraria, da un Paese straniero.


Un nome e un cognome? Angelo Ferro, scomparso poco più di un anno fa, il 13 marzo 2016, dopo aver lasciato tante opere realizzate, una valanga di progetti da completare e innumerevoli idee da portare avanti e concretizzare. Ma anche, senza volerlo, dopo aver innescato una guerra già esplosa da mesi nella famiglia a colpi di carte bollate. Una guerra che rischia di attingere la sua creatura cui forse teneva di più, l’Oic (Opera Immacolata Concezione).


Da una parte la vedova Sergia Iessi, critica d’arte, fedele compagna di una vita; dall’altra gli otto nipoti Andrea Cavagnis (già amministratore delegato della Pavan di Galliera Veneta e ora pure presidente, erede designato dallo zio alla guida dell’Oic per disposizione testamentaria e, come si conviene a una dinastia, nominato nuovo presidente della fondazione Oic) con i fratelli Giacomo, Francesca e Clara, figli della sorella Lucia deceduta; ancora Piera e Guido Ferro, figli del fratello Ottone e, infine, Luca e Guido Masnata, figli della sorella Antonia. Nipoti che, nell’autunno scorso, fanno notificare alla vedova una diffida redatta da un legale di Roma: il ballo c’è la spartizione di una cospicua cifra, 10 milioni di euro provenienti da un’assicurazione sulla vita che il professor Angelo Ferro aveva stipulato con quell’estrema riservatezza destinata a caratterizzare la sfera privata della sua esistenza.


La signora Sergia sta sistemando i documenti del marito deceduto quando, casualmente, scopre quella carta indirizzata a un notaio e alla compagnia assicuratrice. La data è dei primi giorni del marzo 2016: le condizioni di salute del professor Angelo stavano ormai al limite e il giorno precedente, sempre lucido e di mente vivace, aveva riscritto per l’ennesima volta le volontà testamentarie.


In quell’atto il docente-imprenditore varia la percentuale di suddivisione della polizza, capovolgendo le precedenti disposizioni: il 60 per cento all’amata consorte e il 40 per cento ai nipoti, tutti comunque beneficiari del lascito. Una cifra consistente. Non basta. Il fronte compatto dei discendenti comincia ad agitarsi, forse dimenticando l’amore e l’affetto espressi nei necrologi pubblicati sui giornali nazionali il giorno del lutto. Squillano trombe di guerra con l’arrivo nell’elegante palazzina-dimora della coppia in Riviera San Benedetto, nel cuore della città del Santo, una raccomandata contenente una diffida firmata dagli otto nipoti che “sentenzia”: il documento che riduce e capovolge le quote della cifra milionaria a favore della vedova, è un falso. Il motivo? La firma del professor Angelo Ferro è autentica, tuttavia non risulterebbe coeva al testo bensì precedente. E l’atto autentico è quello allegato alla polizza originaria che stabiliva l’80 per cento del patrimonio da destinare ai nipoti e limitava il 20% alla vedova.


La “carica” non si esaurisce. Segue, quasi immediato, il licenziamento in tronco della storica collaboratrice del professor Ferro, insostituibile suo braccio-destro e responsabile di fatto degli uffici del Consolato dell’Uruguay affidato all’economista-imprenditore padovano da decenni.


E scatta il pressing nei confronti della vedova, rimasta sola e senza figli. Quasi una pena del contrappasso per il professor Angelo Ferro che, negli ultimi anni di vita, aveva perseguito una sua personale battaglia contro l’ex maggiordomo-tuttofare del pellicciaio padovano Mario Conte, accusato di essersi incoronato erede universale del patrimonio milionario del suo datore di lavoro, a discapito di alcuni enti benefici (tra cui l’Opera Immacolata Concezione) candidati a incamerare parte di quei beni. Ferro, uomo di finanza e di azienda ma pure di solido spirito religioso e di solida fede cattolica, non aveva voluto lasciare impunito quello che considerava un atto di ingordigia, destinato a calpestare la promessa di munificenza dell’amico.


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