Risponde Slepoj: il futuro è un punto di domanda ma la risposta è dentro di noi

Ho 59 anni e 3 anni e mezzo fa ho avuto un infarto, fortunatamente non grave tanto che mi è consentito svolgere la mia attività di libero professionista con assoluta tranquillità (ringrazierò sempre la nostra tanto vituperata sanità).
Chiaramente questa situazione mi preoccupa dato che si continua a sottolineare la pericolosità di questo virus per chi come me ha avuto questo problema. Certo non posso vivere sotto una campana di vetro ma ho limitato moltissimo la mia attività al punto che vedo ormai solamente le solite tre o quattropersone oltre ai familiari. Se incontro qualcun altro non di routine vedo di mantenere le “dovute” distanze però la paura, il timore che da un momento all’altro qualcosa possa modificare repentinamente nella vita della mia famiglia e mia è costantemente insinuato nella mente (proprio come tre anni fa). E mi ritrovo a pensare sul futuro, sì, come sarà tra un mese.
Loris
Caro Loris,
È vero: è stata molto sottolineata la parte che riguarda i deficit fisici, perché tocca i soggetti più fragili, ma il suo cuore regge e reggerà. Sono lo stile di vita e una buona impostazione interiore a dare tutto il supporto psicologico necessario ad affrontare una condizione così. Lei, scrive, è un libero professionista, fa parte di coloro che sono da soli a sostenere autonomamente il risultato sia economico sia professionale. In questo caso va sottolineato vista l’eccezionalità dell’evento, che le istituzioni hanno predisposto un sistema d’aiuto per tutte le categorie sociali. Occorre avere un po’ di fiducia.
Per quanto riguarda l’atteggiamento psicologico, sarebbe importante sentirsi più protetto e con una maggiore solidarietà. Mi creda, è necessario credere non solo nella solidarietà esterna, ma anche in noi stessi.
Le consiglio di cambiare il ritmo della sua vita, ma soprattutto è la testa, il modo di pensare, il ritornare quotidianamente sul passato, quello che ha fatto fino a poco fa, che renderà con il tempo tutto sempre più complesso ed angosciante.
Va evitata proprio la malinconia del ricordo, la nostalgia di tutto quello che c’era e non c’è più. Si dia un tempo lungo per ridisegnare, magari in modo più creativo e con idee diverse, il suo lavoro futuro. L’equilibrio mente-corpo è fondamentale, non torni a pensare con insistenza agli aspetti più problematici e distruttivi, perché in questo momento non ci sono vere e proprie soluzioni.Costruisca allora la sua giornata senza isolarsi e coinvolga i suoi familiari durante la giornata.
Mi chiamo Cristina, ho 43 anni e mi sono appena imbattuta in questa preziosa iniziativa, sulla “Nuova Venezia”
Adesso che sono qui, su questa pagina bianca virtuale, non so nemmeno da che parte cominciare. Mentre, in realtà, da quando è cominciato quest’incubo, la mia testa è piena di pensieri, di domande che, naturalmente, non trovano risposta né in rete né altrove. Perché nessuno sa. Perché, come ho letto da qualche parte, stiamo tutti navigando a vista. Dovendo però individuare una sorta di punto di partenza, mi viene in mente, la parola angoscia. Una parola che assume infinite sfumature, che sembra dilatarsi come una spirale, un gorgo infinito che mi risucchia, mi affatica e mi spegne.
Ho paura. Paura di tutto. Di ammalarmi, o che si ammali il mio compagno, oppure i miei genitori, rimasti lì, in provincia di Venezia, mentre io mi trovo a due ore di treno o di macchina, in provincia di Verona. Ho paura di saperli andare via nella più totale solitudine, senza poterli assistere, senza poter stringere loro la mano. E non per la distanza, per colpa di questo maledetto virus che fa morire le persone in questo modo metallico, arido e spaventoso.
Ho paura per me che soffro di idrope cocleare, una patologia cronica associata alla Sindrome di Meniere. Ho paura per il mio compagno che, a differenza mia che sono a casa non avendo più trovato lavoro una volta trasferita qui a Verona, lui esce di casa tutti i giorni per lavoro.
Non sono pronta a perdere i miei genitori. O a restare sola, qui, dove non ho nessun legame all’infuori del mio compagno.
Ogni mattina mi alzo vedo il sole, ma sopra è tutto intorno a me, sento una cappa cupa, grigia e tempestosa. Dovrei ringraziare, stare serena forse, perché finora stiamo tutti bene. Perché i miei genitori vivono in un condominio dove ci sono inquilini che li aiutano, oltre ai servizi a domicilio attivati dal Comune. E invece non ci riesco, appena la coscienza ritorna vigile, mi sento come se stessi affrontando una di quelle terapie interminabili e pesanti, il cui esito è un’incognita.
Non provo più entusiasmo per niente. Non è la “reclusione” forzata, stare in casa con me stessa, con i miei libri, la mia casa, non è mai stato un problema. È questo senso di pericolo prolungato. Questo senso di minaccia invisibile, che colpisce a tradimento. È la luce, i colori dentro lo sguardo che sbiadiscono e se ne vanno. Nemmeno i libri riescono più a rapirmi la mente. A dare sollievo.
In internet esperti dicono che solo il destino, il caso, Dio, sa se lo prenderemo tutti questo virus. Dicono anche che in autunno tornerà. E poi ci sono le testimonianze di chi ci è passato. I sintomi, il decorso. Le immagini.
Dottoressa, io non so come convivere con tutto questo. Razionalmente so che non posso controllare l’incontrollabile. Emotivamente mi scoppia la testa. E anche il cuore, dalle lacrime, dal terrore, dall’angoscia.
Infine provo rabbia. Non tanto per i cinesi, dai quali, apprendo, sono partite non so quante epidemie dal V secolo avanti Cristo ad oggi.
E insomma, da allora, non hanno mai imparato. O comunque non è cambiato niente!
Provo rabbia per il progresso, che ci ha portati alle condizioni di oggi, provo rabbia per il denaro, l’economia, che regge tutto e che passa davanti alla salute di miliardi di persone. Provo rabbia anche nei confronti di Dio. Perché un Dio di luce bontà, come vogliono farci credere fin da piccoli, probabilmente non esiste. Esiste solo un Dio come l’uomo, insieme buono e cattivo.
Non riesco a immaginarmi un appiglio, una speranza. La parola domani, mi sembra un palloncino sgonfio, colonizzato dal virus. È un po’ come morire, a poco a poco, ogni giorno. Circondati da numeri sconfortanti, braccati da angosce, solitudini. Ossessioni. Sì perché lentamente diventeremo tutti affetti da disturbi ossessivo compulsivi da pulizia e igiene. La mia vita non è più quella di tre mesi fa. E non per le restrizioni, ma per tutta questa infinita angoscia. Per questo tunnel buio e freddo che, al momento, sembra senza fine.
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Cara Cristina
Un lungo respiro sulla vita, questo è il significato della sua lettera. La scrittura è un grande antidoto. Ti aiuta mentre scrivi a capire quello che ti accade dentro. Potremmo iniziare da questa sua dote che è lo scrivere, e dalla sua profonda sensibilità.
Capire l’angoscia, riuscire a descriverla, è già un ottimo esercizio per la mente. La paura è quella antica che accomuna tutto il genere umano, che ha consentito di preservarsi e non estinguersi. La sua paura è quella simile a quella dei nostri antenati quando il pericolo era dietro l’angolo: c’era la fame, i predatori, le guerre violente verso le quali le popolazioni erano indifese. Si rassereni, perché tutti i suoi dettagliati sentimenti non siano rifiutati, ma correttamente contenuti.
È importante abbandonare i ricordi, riposizionare la quotidianità e, nella tragedia umana che tutti stiamo vivendo, occorre creare uno spazio sicuro dentro la nostra mente, composto non dalle semplificazioni, non dall’estenuante ricerca di notizie, ma da un lentissimo viaggio tra la cucina, le stanze, le finestre. Le case sono i nostri territori, e si devono incrociare con quelli della mente. I pensieri si devono coordinare per reggere un lungo viaggio verso l’ignoto. Bisogna costruire nuovi spazi, fisici e mentali, guardare il giorno e la notte non per temerli, ma per accompagnarli. Tutti comportamenti a cui non siamo più abituati.
Quindi scriva le sue giornate, accompagni il partner nelle letture dei testi che scriverà. La paura c’è, ma non ci serve temerla.
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SCRIVETE A SLEPOJ
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