«Scelse l’esilio, stanco di lottare»

VENEZIA. «Intelligente, curioso e sensibile. A chi gli chiedeva se aveva mai commesso errori lui rispondeva: “Sì molti, come tutti, ma la cosa di cui non mi pentirò in assoluto è stato sposare la mia ultima moglie: dovevo farlo prima”. Stiamo parlando del suo terzo matrimonio, con la vedova di un caro amico che conosceva da una vita. Una persona splendida». Giorgio Roverato aveva un rapporto con Pietro Marzotto quasi quotidiano, in certi momenti. Il primo incontro data 1980 quando il professore dell’Ateneo di Padova chiese all’industriale di Valdagno (città natale anche di Roverato) l’accesso all’archivio Marzotto. «Mi disse subito sì, capendo che la storia dell’azienda non era privata ma di tutti». Ora il dispiacere è immenso anche perché «Pietro non leggerà il libro-intervista “Un imprenditore calvinista” che sto completando per lui».
Perché calvinista?
«Per il suo forte impegno e per la responsabilità sul lavoro e verso la comunità. Anche quando ha dovuto ridurre il personale, l’ha fatto per salvare la Marzotto e le altre persone. Il dimagrimento avvenne con trattative continue con i sindacati e non d’imperio: ore e ore di discussione estenuanti e memorabili».
Chi era davvero Pietro Marzotto?
«Una persona discreta, di basso profilo: un uomo che non doveva apparire se non attraverso i suoi atti. Ha attraversato 40 anni di vita economica del Paese con ruoli di primo piano, non solo trasformando Marzotto in una multinazionale del fashion poi destrutturata da chi andò al comando quando lui uscì».
Poteva ricucirsi quel grande strappo familiare?
«Fu una scelta drammatica perché non solo uscì dal capitale ma abbandonò Valdagno, un posto a cui era molto legato per i suoi avi e anche per lo spirito locale della sua impresa».
Se ne andò a Caorle a chilometri di distanza. Un esilio?
«Fu un esilio e una cura. Io sono convinto che Pietro poteva vincere l’ultimo dei tanti scontri con la famiglia ma si era stancato di lottare. Ha lottato per ogni acquisizione, per fare grande l’impresa. Chiedeva risorse non da nuovo capitale ma dagli utili e per gli azionisti non gestori questa era una cosa che non andava bene. Dopo lo scontro finale, la famiglia vendette tutti i marchi che lui aveva acquisito tra cui Hugo Boss monetizzando e impossessandosi di tutto il plusvalore che lui aveva creato».
E lui cosa diceva?
«Diceva: mi hanno detto che ero cretino ma ora vivono del lavoro che ho fatto».
È stato anche vicepresidente di Confindustria ma rifiutò la presidenza dicendo: “Io sono un industriale non un confindustriale”.
«In Confindustria ha avuto deleghe molti importanti ma quella di cui andava orgoglioso era la delega all’Ufficio studi ma è bene ricordare anche il risanamento lacrime e sangue della Snia su mandato di Cuccia. Era il 1980 aveva poco più di 40 anni e fu un vero manager. I confindustriali stanno poco in azienda e tessono rapporti politici mentre lui era un industriale e stava in azienda davvero; ma aveva un estremo equilibrio e l’intelligenza della moderazione e della mediazione degli interessi».
L’avventura Peck?
«È stata una seconda vita e lui era un vero appassionato di cucina. C’ha messo tempo per rilevarla poi ha lasciato perdere, ha delegato all’ultimo dei suoi figli e non è più andato a Milano».
E politicamente?
«Fu un liberale ma non nel senso partitico del termine: capiva che le posizioni di una sinistra moderna potevano essere idonee a un Paese anchilosato come il nostro, così ha ruotato attorno al movimento dei sindaci di Giorgio Lago di cui era anche molto amico. Ricordava il ’68 a Valdagno con l’abbattimento della statua di Gaetano dicendo: “A un certo momento la famiglia decise che dovevo andare io in Prefettura a trattare la soluzione dello scontro: forse pensavano già allora io fossi di sinistra”. Fu progressista e l’impronta che diede alle relazioni industriali fece di Marzotto uno dei migliori modelli d’Italia».
Ha condotto una dura battaglia contro Berlusconi.
«I Marzotto sono l’unica famiglia che vanta tre cavalieri del lavoro e per lui era inaccettabile che Berlusconi si fregiasse di quel titolo, essendo stato condannato in via definitiva. Lo faceva arrabbiare, tant’è che si autosospese e condusse una battaglia solitaria contro Berlusconi ma alla fine l’ha vinta perché Berlusconi ha silenziato il titolo. Forse capì che era meglio non mettersi contro una testa dura come quella di Marzotto».
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