Stefano, una star nella Super League d’Uganda. «Ma mi prendo fischi perché sono bianco»

Mazengo Loro, 27 anni, è il primo calciatore italiano a giocare nella serie A dello Stato centrafricano e conquista le copertine dei quotidiani sportivi. Viveva a Montagnana
La formazione titolare del Kampala City Council Football Club, prima squadra della capitale ugandese. Stefano Mazengo è al centro in piedi
La formazione titolare del Kampala City Council Football Club, prima squadra della capitale ugandese. Stefano Mazengo è al centro in piedi

MONTAGNANA. I suoi riccioli riempiono da settimane le prime pagine dei quotidiani sportivi africani: un “mzungu” che è diventato una vera e propria star in Uganda.

Stefano Mazengo Loro, 27 anni di Montagnana, è infatti il primo italiano a giocare nell’Uganda Super League, il massimo campionato dello Stato centrafricano. Il giovane padovano ha firmato con il Kampala City Council (Kcca) Football Club, la squadra della capitale, scrivendo una romantica quanto curiosa pagina di storia sportiva.

Come ci finisce un montagnanese nel campionato di calcio ugandese?

«Intanto dovrei spiegare come sono arrivato in Uganda! Io sono nato a Trento, mamma è vicentina di Brendola e papà montagnanese di Borgo San Marco. Si sono conosciuti trent’anni fa in Tanzania, dove lavoravano come medici per il Cuamm. Nonno era tra i primi operatori di questa organizzazione, quindi siamo molto legati all’Africa. Quindici anni fa, i miei genitori hanno deciso di venire a vivere qui, con me, i miei due fratelli e mia sorella».

Stefano Mazengo Loro durante un allenamento
Stefano Mazengo Loro durante un allenamento

Hai un baccalaureato internazionale in Leisure Management raccolto tra la Steden University in Olanda e la Deusto University in Spagna, quindi un master in Sports Business and Management alla Sheffield Hallam University, in Inghilterra. Ma ora fai l’atleta di professione…

«Quando ero in Italia giocavo nelle giovanili dell’Hellas e non ero per niente male. Con il Covid-19, un anno fa, è saltato un progetto che mi avrebbe portato a lavorare per l’Adidas a Berlino. Ho cominciato ad allenarmi con il Kcca e ho strappato un contratto per due anni. Ho accettato. Non lo avessi fatto, sono sicuro che me ne sarei pentito tra dieci anni».

E così sei il primo italiano di sempre a giocare in Super League.

«Esattamente. Una circostanza che incuriosisce qui in Uganda, e infatti mi è stata dedicata più di qualche copertina. Non sono però il primo “mzungu”, il primo caucasico: se non sbaglio se ne sono già visti tre negli ultimi vent’anni».

Stefano Mazengo festeggia con i compagni dopo un gol
Stefano Mazengo festeggia con i compagni dopo un gol

Qual è il livello del campionato e della tua squadra?

«Il Kcca è una delle due big dell’Uganda: con i Vipers di Kitende si è spartita i campionati dell’ultimo decennio. Siamo l’unica squadra ugandese ad aver superato il preliminare di Coppa della Confederazione Caf, la seconda più importante dell’Africa. Il livello? Penso che se potessero farsi conoscere, metà dei miei compagni sarebbero titolari di una Primavera delle nostre squadre di serie A. Pur essendo professionisti, il guadagno è comunque limitato: il nostro capitano prende l’equivalente di mille euro. Che è comunque tre volte lo stipendio di un poliziotto. Io ho un altro lavoro: curo la parte finanziaria di una società che organizza crociere di lusso sul lago Vittoria, il più grande dell’Africa».

Com’è accolto un giocatore bianco in Africa?

«Subisco moltissimi abusi e sfottò, nonostante io sia qui da quindici anni e praticamente non parli più italiano nemmeno in famiglia. Non conoscono la mia storia. Sia in campo che nel web è dura: ho dovuto persino smettere di seguire la pagina social del Kcca per dribblare gli insulti. All’inizio era quasi divertente, gli amici mi mandavano gli “screen” delle offese. Fa parte del gioco, ma alla lunga è pesante. È il razzismo che si trova in tutte le tifoserie calcistiche del mondo: in Europa tocca ai giocatori di colore, in Africa a quelli bianchi come me».

Come ha impattato il Covid-19 nella vita dell’Uganda e come è gestito a livello sportivo?

«Qui la pressione è minore che in Europa. Vengono stimati 40 mila casi da inizio pandemia. Nel nostro campionato si fanno tamponi ogni due settimane, ma penso sia prassi che venga rispettata solo da quattro squadre, quelle che economicamente possono permetterselo. Il Covid-19 ci ha però giocato un pessimo scherzo...».

Cioè?

«A gennaio ci aspettava il turno preliminare di Coppa della Confederazione Caf, in Ruanda, contro l’As Kigali. Il regolamento prevede di effettuare il test prima della trasferta. Il risultato dei tamponi è arrivato pochi minuti dopo la fine di una partita di campionato: in 12, quasi tutti titolari, me compreso, eravamo positivi. Avevamo giocato da positivi. Un macello. Per regolamento, in Coppa bisogna presentarsi in 15. Siamo volati in Ruanda portando anche gli infortunati, senza portieri. Poco prima del fischio d’inizio ci è stata confermata la positività di altri giocatori. Abbiamo quindi perso 2-0 a tavolino. Al ritorno abbiamo vinto 3-1, ma non è bastato e siamo stati eliminati».

Il tuo futuro è in Uganda?

«Ringrazierò per sempre i miei genitori di aver fatto la scelta di vivere in Africa. Vorrei far valere i miei titoli di studio in ambito sportivo, ma non escludo di aprire una mia Academy qui in Uganda». Intanto c’è da vincere un campionato. Il primo di un italiano nel cuore dell’Africa. —

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