Regionali in Veneto, Stefani in pole per la candidatura: niente Lista Zaia
A tre mesi dal voto Alberto Stefani resta favorito nella corsa alla presidenza della Regione. Sfida con Mario Conte, Zaia fuori gioco ma potrebbe guidare la lista ufficiale della Lega. Meloni e Salvini trattano per evitare scossoni nel centrodestra

A tre mesi dal voto in Veneto, Alberto Stefani mantiene i favori del pronostico nella corsa alla nomination. Salviniano pragmatico e incline al dialogo, il giovane segretario della Liga raccoglie un discreto gradimento tra gli alleati: se sarà candidato alla presidenza della Regione, resistendo alla concorrenza del sindaco di Treviso Mario Conte, potrà schierare una civica propria ma, a differenza della collaudata (e vincente) Lista Zaia, l’inedito cartello di Stefani non includerà esclusivamente candidati leghisti bensì rappresentanti dell’intera coalizione – condivisi e ripartiti secondo criteri proporzionali al consenso politico raccolto – nonché esponenti della società civile con particolare attenzione al circuito delle professioni e delle imprese.
A proposito di Luca Zaia: secondo fonti romane, la riproposizione della sua civica è pressoché esclusa per volontà degli alleati (timorosi dell’effetto-calamita sperimentato nel 2020) e la circostanza innesca l’ennesima polemica a distanza.
«Perché Flavio Tosi si preoccupa tanto della Lista Zaia? Faccia il segretario di Forza Italia e guardi in casa sua» , sbotta Alberto Villanova, lo speaker di maggioranza, irritato dall’ennesimo attacco del veronese al governatore uscente. Quest’ultimo, en passant, a parziale compensazione del veto congiunto al terzo mandato, potrebbe capeggiare la lista ufficiale del partito in tutti i collegi, magari abbinando il proprio nome al simbolo sulla scheda.
Che a novembre (il 23 l’ultima data utile e la più probabile) esibirà anche l’inveterato scudo crociato dell’Udc, cespuglio moderato dell’alleanza, erede in miniatura della Balena Bianca: «La persona al Centro, il Veneto nel cuore» le parole d’ordine del senatore padovano Antonio De Poli, il segretario nazionale dei cattolici centristi impegnato nell’avvio della campagna.
Ma, al netto di rumors incontrollati e voli di fantasia, qual è davvero lo stato delle trattative tra i leader nazionali? Convocato in vista della tornata regionale, il tavolo del centrodestra è ormai in soffitta. Un paio di riunioni appena e il “quartetto” incaricato di esaminare i dossier – Giovanni Donzelli (FdI), Roberto Calderoli (Lega), Maurizio Gasparri (FI), il citato De Poli – è stato cordialmente congedato: a sciogliere i nodi, si apprende, provvederà direttamente Giorgia Meloni. O almeno ci proverà, privilegiando, et pour cause, l’interlocuzione con Matteo Salvini.
Indispettita da Roma Capitale e Ponte sullo Stretto, delusa dai tempi biblici dell’autonomia e dal sorpasso della destra tricolore, la base nordista guarda con insofferenza al Capitano in felpa. Facile prevedere che ulteriori turbolenze tra Venezia e Milano ne incrinerebbero la leadership, minacciando la stabilità del Governo.
Una prospettiva che preoccupa la premier e la induce a puntellare l’alleato, rinunciando de facto a Palazzo Balbi a dispetto dei mutati rapporti di forza nella regione e nel Paese. È la lettura prevalente nei palazzi della Capitale, accompagnata da una suggestione che accosta il destino del Veneto all’esito della sfida nelle Marche, dove Francesco Acquaroli, un meloniano inossidabile, cerca la conferma nel testa a testa con il dem Matteo Ricci, in programma il 28 settembre.
Se la destra uscisse sconfitta – è l’ipotesi – le bandierine presidenziali di FdI si ridurrebbero al Lazio e all’Abruzzo, escludendo in toto il Nord e il Mezzogiorno, a dispetto del 30% su scala nazionale. Il passo indietro a Nordest, allora, assumerebbe il tenore di un sacrificio doloroso e forse insopportabile.
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