Rino Baron, 50 anni di sport e massaggi «La mia lotta contro la piaga del doping»

IL PERSONAGGIO. A gennaio compie 72 anni. E’ stato atleta prima e massofisioterapista dopo: nel ciclismo e nel grande calcio 
Bolognini Castelfranco Hotel Fior premiazioni Juniores 2013 Oscat Tuttobici RINO BARON
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Rino Baron, a gennaio compirà 72 anni, e di questi una cinquantina li ha dedicati, come atleta prima e massofisioterapista poi, allo sport.

Se le diciamo ciclismo, lei che cosa ci risponde?

«Che è stato ed è tanto importante per me, perché da giovane l'ho praticato. Avrei forse potuto ottenere di più, ma a 17 anni, quando ero allievo, fui coinvolto in un gravissimo incidente stradale. Mi stavano accompagnando ad una gara, l'auto si schiantò contro un albero. Riportai 14 fratture. Rimasi fermo sino ai 19 anni, quindi tornai in sella e vinsi anche sei corse. Ero un passista veloce, difendevo i colori della Coin Mestre nel 1970. Poi mi appassionai talmente al mio recupero fisico che mi diplomai, e capii che la strada da seguire sarebbe stata quella di mettermi a disposizione degli atleti».

Attaccati guanti e bicicletta al fatidico chiodo, iniziò così l'avventura dall'altra parte della barricata nel 1972. Ricorda il suo... battesimo?

«Certo. Fu con la Nazionale Dilettanti al Giro della Jugoslavia. Nel 1973 passai alla Filcas, squadra dilettanti, dove vincemmo il Trofeo Baracchi-Gp d'Europa con la coppia Fraccaro-Rosolen. Decidemmo di creare un team professionistico l'anno successivo e la Filcas addirittura fu la prima maglia rosa del Giro 1974, grazie al belga Wilfried Reybrouck. Poi nel 1975 andai alla Jolly Ceramica, che conquistò con Bertoglio la corsa a tappe rosa, conclusasi allo Stelvio. Mi trovai persino i cartelli dei tifosi con scritto “Grazie Baron” perché il vincitore aveva un problema al ginocchio e riuscii a risolverglielo».

Saltiamo al 1978, quando incontrò Francesco Moser. E' stato il più grande campione con cui abbia lavorato?

«Penso proprio di sì. Lo definirei un gladiatore della bicicletta, aveva il coraggio di essere sempre in prima fila, con fughe e attacchi continui, alle volte troppi, perché pagò in alcune gare questo azzardo. Furono anni strepitosi, momenti magici, penso alla Parigi-Roubaix e al Giro. Il suo carattere era forte, aveva un notevole carisma, e sul piano umano ti diceva le cose in faccia, pretendendo il massimo da tutti. Avrebbe potuto conquistare un altro Giro, però credo abbia dato il massimo. Ha fatto sicuramente oltre un milione di chilometri sulle due ruote».

Andiamo avanti nella ricostruzione della sua carriera.

«Dopo Moser, fui richiesto dalla formazione di Freddy Maertens, il campione belga che sembrava alla deriva. Lo seguii di brutto, e con i sacrifici tornò a fregiarsi dell'oro iridato».

E quando esaurì il suo percorso professionale?

«Nel 1981 ero il massaggiatore ufficiale della Nazionale. Prendemmo il bronzo ai Mondiali su pista di Brno, nell'inseguimento, con Bidinost, e quello stesso anno Maertens vinse, appunto, il suo secondo mondiale su strada a Praga, precedendo Saronni. Subito dopo abbandonai il ciclismo per passare al calcio (ne parliamo a parte, ndr)».

Nel 1984, mentre lei lavorava con il Padova, che quell'anno retrocesse dalla Serie B per illecito, la passione per i pedali riemerse prepotente e la spinse a fondare un suo team.

«Sì, una società dilettantistica che porta da sempre le sigle dei miei famigliari (Fiorella, la moglie, e i figli, Wais e Ronny), ma come sponsor ci sono stati Roncato, Bata, poi Argentin, Moser (tutt'e due sono presidenti onorari). Via via siamo andati avanti, con buoni risultati, e abbiamo inserito una squadra femminile, trascinata da Antonella Bellutti, due volte oro olimpico, e da Vera Carrara, campionessa del mondo».

Veniamo alla battaglia contro il doping, che la vede in primo piano.

«Nel 2000 presentai la tessera della tutela del salute e due anni dopo organizzai un convegno a livello internazionale a Padova, dove illustrai la proposta del passaporto biologico».

Perché quelle iniziative?

«Perché mi ero accorto che 2-3 atleti che seguivo avevano qualcosa a livello linfatico che non andava bene e mi confidarono che ricorrevano a prodotti illeciti. Inizialmente feci rumore con le mie idee, molti non mi guardavano bene, davo un po' di fastidio».

Come la mettiamo con l'antidoping?

«Oggi tende ad essere sempre un po' più avanti del doping, ma io dico che quest'ultimo è talmente sofisticato che solo se esamineranno a fondo i profili ormonali dei singoli atleti potranno scoprire le palesi irregolarità nell'alterare il fisico umano».

Adesso che cosa fa Rino Baron?

«Continua ad occuparsi di ciclismo. Nel 2012 lo sponsor Bata abbandonò la scena, e allora, per non lasciar morire la società che avevo fondato, mi sono inventato un Gran premio per la categoria juniores, che comprende solo gare a carattere nazionale, internazionale, Campionati italiani e del mondo, Coppa delle Nazioni, e lì viene fuori il meglio. Lo organizzo da sette anni. Un'idea che mi ha dato grandissime soddisfazioni».

La famiglia, per concludere?

«E' il patrimonio in assoluto più importante della mia vita. Con Fiorella, presidente della società, sono sposato da 42 anni, Wais ha acquisito la terza laurea e si è aperto uno studio di fisioterapia a San Martino di Lupari, mentre Ronny è meccanico ufficiale della squadra professionistica Bahrain-Merida. Tutt'e due sposati, con Lorenza e Maila, e il secondo ci ha regalato il primo nipote, Liam, che oggi ha 15 mesi. Che posso chiedere di più e di meglio?». —



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