Arturo Martini, tutti i disegni

di Fausto Politino
TREVISO
Sostenere che il trevigiano Arturo Martini, con le sue creazioni che plasticamente si rinnovano a contatto con il simbolismo, l’espressionismo, il cubismo, il ritorno all’ordine, l’astrattismo, è il più grande scultore italiano della prima metà del Novecento può sembrare scontato. Non è scontato invece riconoscere il valore, e in gran parte l’autonomia, della sua produzione grafica. Anche perché lo stesso Martini non aiuta in tal senso. Da un lato sostiene che il disegno non fa parte del lavoro dell’artista. Di quelli esposti nel 1944 nella veneziana Piccola Galleria dirà che “No i val niente. Roba vecchia come el cuco”. Dall’altro gli attribuisce un ruolo molto importante per la scultura. Giudizi contrastanti. Sicuramente da non prendere alla lettera. Tali tuttavia da richiedere una seria analisi.
Se la scultura di Martini è stata studiata con il dovuto rigore, lo stesso non vale per la grafica, la pittura e il disegno, spesso considerati solo cornici subordinate all’attività di maggior rilievo. Se fino ad ora mancava un serio esame critico del disegno di Martini, la lacuna finalmente è stata colmata dalla pubblicazione del saggio di Marco Servadei Morgagni “Arturo Martini. Il disegno”, edito da Compiano. Saggio arricchito da un catalogo ragionato di oltre duecento disegni. Tutti quelli noti, oltre agli inediti rintracciati dallo studioso nelle collezioni pubbliche e private. “Uno strumento indispensabile” lo definisce Nico Stringa nella prefazione. In grado di permettere agli specialisti e ai non specialisti di “verificare il significato complesso e complessivo che ha avuto il disegno nella vicenda martiniana”. Anche se all’interno della sua esperienza grafica esistono delle costanti, elementi che si ripresentano e si riscontrano in tempi diversi, sarebbe un errore per l’autore del saggio parlare di un’unica linea evolutiva.
Basta rifarsi ai disegni che coprono i sette anni dal 1939 al 1946. L’artista ricorre al pulviscolo impressionista dei “Paesaggi”. Ai puri segni matissiani del “Nudo accovacciato”, dove il soggetto sembra nascondersi allo sguardo dell’osservatore: lo scultore trevigiano aveva visto i disegni di Matisse alle Biennali di Venezia del 1926 e del 1928. Alle deformazioni espressioniste delle “Deposizioni”, vedi le Pietà che richiamano la pittura, con le due figure viste frontalmente quasi incastrate in un unico piano. A quelle neocubiste del “Toro” o del “Cammello”. Una disomogeneità espressiva che non permette di ancorarlo ad una solitaria scelta stilistica. Ciò non esclude che si possa ammettere una caratteristica del disegno di Martini. “Nell’uso veloce immediato dirompente della materia del segno, nelle sue varie declinazioni: matita inchiostro tempera cera”. Di sicuro, per martini, il disegno era una prima forma visibile dell’idea di scultura: senza il confronto con la materia, ma una traccia, più simbolica che operativa, ma traccia.
A Treviso il volume è stato presentato dal professor Nico Stringa dell'Università di Venezia, massimo studioso ed esperto di Martini, lo scorso 28 maggio al Museo Santa Caterina
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