Bonito Oliva «Metto l’arte nel container»

di Enrico Tantucci
VENEZIA
È venuto a presentare in questi giorni a Venezia, negli incontri legati alla Biennale Architettura, il suo ultimo progetto, "Parco Nomade", che prevede la nascita a Roma di un grande parco tematico dedicato all'arte contemporanea e alla sua interazione con l'ambiente, con un architetto e un artista impegnati - i primi saranno Carla Accardi e lo Studio 2A+P/A - a lavorare insieme in un "container"esportabile in altre città. Ma Achille Bonito Oliva, che la Biennale Arte ha diretto nel '93, in laguna torna sempre volentieri, con un misto di nostalgia e cinismo per una città che ama. Lo stesso con cui giudica - con le sue metafore immaginifiche e incisive - il sistema dell'arte di cui continua a far parte con successo.
Bonito-Oliva, il suo ultimo progetto sembra sembra legato, all'idea, a lei cara da sempre, del nomadismo dell'arte.
«È l'idea di un'arte nomade, la montagna che va a Maometto e buca l'inerzia e del visitatore».
Affiancare un architetto e un artista per lavorare insieme a un progetto realizzato in un container, che può essere poi "esportato" in altri luoghi, in altre città..
«È' un'idea di arte attuata - con la Fondazione Volume di Roma - non attraverso l'utopia inseguita dalle avanguardie storiche e poi dal movimento moderno, ma con una felice "distopia", che ci mostra la realtà così come essa è. È un massaggio al muscolo atrofizzato della coscienza collettiva e dell'identità dello spettatore. Tra gli architetti, ci saranno tra gli altri Massimiliano Fuksas, Alvaro Siza Vieira, Eduardo Soto de Moura. Tra gli artisti, Bruno Ceccobelli, Yannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto».
Anche la Biennale Architettura, sembra assomigliare sempre più a quella di Arti Visive, installazioni al posto dei plastici, fotografie invece dei progetti.
«Ho visto "Common Ground" di David Chipperfield e l'ho trovata una mostra stimolante, interessante, con un'innovazione linguistica che si estende anche alle arti visive, all'idea dell'installazione, come quella di Norman Foster, dove c'è la musica, il cinema, persino la poesia visiva. La trovo una "cleptomania" felice, questa dell'architettura nei confronti dell'arte. Del resto, come diceva Picasso, i buoni artisti copiano, i grandi artisti "rubano"».
Alla guida della Biennale Arte il prossimo anno ci sarà Massimiliano Gioni. Che ne pensa di lui e del suo progetto di "Palazzo Enciclopedico"?
«Penso che sia il frutto, anche involontario, di una scuola che alla Biennale va da Harald Szeemann ad Achille Bonito-Oliva. L'arte è la vetrinizzazione di questa idea problematica, complessa, inventariale dell'arte, che trovo anche nel progetto di Gioni e che mi sembra stimolante».
Che momento vive il sistema dell'arte e in particolare di quella italiana?
«Come avvenuto nel '31 con il crollo di Wall Street, penso che la crisi economica abbia un effetto benefico sul sistema dell'arte, azzeri tutto. Si era arrivati a definire il valore di un artista in base alla crescita delle sue quotazioni, come per il listino di Borsa, ora torna tutto in gioco. Quanto all'arte italiana, è diffi. cile definirla, perché ormai gli artisti operano in un contesto globalizzato. Non esistono più le correnti, i movimenti, come la mia Transavanguardia, perché la dimensione dell'artista è ormai individualista, procedono in fila indiana».
Germano Celant,dirige la Fondazione Prada, Gioni la Fondazione Trussardi, Bonami la Fondazione Re Rebaudengo, ora lei lavora con la Fondazione Volume. Sembra che per un curatore d'arte oggi sia impossibile procedere senza una fondazione al suo fianco, con il crollo del finanziamento pubblico alla cultura.
«Chiariamo innanzitutto che curatori sono gli altri, io sono un guaritore. Per il resto, credo che molto dipenda dal confronto tra arte e moda, tra artisti e stilisti. Ma gli stilisti non sono artisti, sono artieri e il lavoro di queste fondazioni spesso è collegato, mentre auspico un maggiore conflitto tra di esse, che sarebbe un fatto positivo. La Fondazione Re Rebaudengo - come la Volume, voluta da un neuropsichiatra di fama interessato all'arte - merita comunque un discorso diverso, perché legato a un collezionismo portato all'esterno, che è stato molto importante per la città di Torino».
Lei a Venezia ha lavorato e anche vissuto per un certo tempo, durante la sua Biennale. Come la vede ora dall'esterno?
«Con un misto di ammirazione e rassegnazione. Ammirazione perché è già di per sè un artificio che sfiora il sogno, la sublimazione dell'arte. La rassegnazione sta nel fatto che non cambierà. Venezia oggi a livello sociale paga lo scotto di un terziario che arriva dall'entroterra, di una civiltà contadina che le ha fatto perdere la sua dimensione levantina in chiave internazionale che ha sempre storicamente posseduto. Detto questo, permangono istituzioni culturali importanti come la Fondazione Cini, la Guggenheim , la Fondazione Pinault e anche la Fondazione musei Civici con Gabriella Belli alla sua guida mi sembra stia acquistando una struttura diversa».
A proposito della Fondazione Pinault, lei è ancora - almeno formalmente - nel Comitato scientifico di Punta della Dogana. Cosa pensa dello sviluppo di questa istituzione a Venezia?
«Ho scelto di sostenere la Fondazione Pinault, pensando che alla Punta della Dogana, partendo da una grande collezione d'arte contemporanea, si potesse proseguire l'esperienza che io stesso avevo impostato alla Biennale con "Aperto" dal 1980 all'89. Quella cioè di una serie di mostre che, partendo dagli artisti della collezione Pinault, consentissero a giovani curatori di selezionare giovani artisti, per un'attività continuativa tutto l'anno, con ricadute e rapporti anche con le istituzioni culturali e artistiche della città. Questa era la mia speranza. Dopo un periodo di rodaggio e fatto salvo l'ottimo lavoro che Martin Bethenod sta svolgendo alla guida dell'istituzione, devo constatare che il modello è un altro e che non è concepibile che una mostra, seppure di qualità, cone è appunto "Elogio del dubbio" in corso alla Punta della Dogana, resti aperta per un anno e mezzo senza alcun tipo di ricambio».
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