Borghese e molto intellettuale Ritratto di famiglia dall’interno

Al suo terzo film, dopo “È più facile per un cammello…” e “Attrici”, Valeria Bruni Tedeschi insiste sull’elemento autobiografico e racconta in “Un castello in Italia” la travagliata vicenda familiare...
Di Michele Gottardi
Una foto di scena del film 'Un castello in Italia' rilasciata il 22 ottobre 2013. ANSA/US EDITORIAL USE ONLY
Una foto di scena del film 'Un castello in Italia' rilasciata il 22 ottobre 2013. ANSA/US EDITORIAL USE ONLY

Al suo terzo film, dopo “È più facile per un cammello…” e “Attrici”, Valeria Bruni Tedeschi insiste sull’elemento autobiografico e racconta in “Un castello in Italia” la travagliata vicenda familiare dei Rossi Levi, evidente parafrasi della sua casata, un tempo florida di una ricchezza industriale ora decaduta al punto da dover vendere dapprima uno splendido Brueghel e poi il castello del titolo, a Castagneto Po, fuori Torino. Il tutto mentre il fratello (Filippo Timi) si avvicina inesorabilmente alla morte per Aids.

Lungi dall’essere un film tragico e decadente, “Un castello in Italia” mostra una sorta di schizofrenia narrativa che rispecchia quella della sua principale protagonista e regista, quarantenne senza figli con una storia controversa con un attore più giovane (Louis Garrel). Gli elementi autobiografici intessono tutto il film di Bruni Tedeschi, a cominciare dalla madre del film che è Céline Sallette, madre biologica della regista, a Garrel, per un certo tempo suo compagno nella vita (che a sua volta ha un rapporto controverso col padre regista, facile realismo con la biografia di Louis e Philippe Garrel), alla storia del fratello Virginio, scomparso per Aids, a tanti altri elementi che costellano il film.

Era probabile che da una saga familiare del genere ne uscisse un film decadente e poco vicino alla sensibilità di un pubblico pur cinefilo. Un po’ per ovviare a questo rischio, un po’ per rispecchiare la propria sensibilità, Valeria Bruni Tedeschi si è affidata a un insieme di generi che unisce con una certa disinvoltura, passando dalla commedia di costume (tutti i vari siparietti legati alla sua maternità impossibile, con tanto di suore che parlano napoletano stretto e visita ai templi del folclore locale) alla storia sentimentale, alla critica sociale. I generi sono spesso mescolati con disinvoltura, anche col sostegno di luoghi e interpreti noti e soprattutto con un uso ironico, ancorché paradossale, della colonna sonora, che unendo assieme Rita Pavone, Chopin e altri evergreen la rendono particolarmente ruffiana anche verso le immagini.

Ne scaturisce inevitabilmente un film ampiamente vedibile e ben girato, che risente delle diversità stilistiche e narrative lasciando lo stesso senso di schizofrenia dei suoi protagonisti, mostrando forse concluso il percorso di elaborazione del lutto della protagonista, ma non definitivamente superata un’appartenenza borghese e intellettuale che ammanta il film. Cameo di Silvio Orlando.

Dur.: 104 - Voto: ** ½

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