Caso Litta, dossier bollente su chirurgia Padova

Arriva il rapporto ispettivo su 500 interventi: setacciata l’attività 2017 del ginecologo, controlli a campione su altri medici

PADOVA. È un’indagine senza precedenti quella conclusa dai tre “detective” della sanità veneta inviati in Azienda ospedaliera sulle tracce di Pietro Litta, il ginecologo e docente universitario - ora indagato per peculato dalla Procura - al quale è contestata la richiesta di una bustarella di 2 mila euro ad una paziente che si fingeva interessata all’intervento di chiusura delle tube (in realtà si trattava di un’inviata sotto copertura di “Petrolio”, la trasmissione di Raiuno) visitata in libera professione nella clinica Cittàgiardino - con versamento di 200 euro senza fattura - e allettata dalla promessa di una corsia preferenziale rispetto ai fisiologici tempi d’attesa operatori. In tre mesi di impegno interdisciplinare, il pool degli ispettori - composto da Milvia Marchiori (medico), Francesco Bortolan (esperto d’informatica), Maria Martelli (dirigente amministrativo)- ha setacciato l’intera attività 2017 di Litta, ricostruendo nel dettaglio l’iter dei circa 250 interventi eseguiti dal professore: l’appuntamento e la visita, la diagnosi e la prescrizione, l’inserimento in lista d’attesa e l’ingresso in sala operatoria.

Perché il protocollo chirurgico distingue quattro livelli di tempistica - da 30 a 180 giorni proporzionali all’urgenza patologica, dove la priorità assoluta è accordata ai malati oncologici - e il sospetto di partenza, lo stesso che spinto il governatore Luca Zaia ad inviare un esposto alla magistratura di Padova sulla vicenda, è che la diagnosi sia stata in qualche caso “accomodata” per consentire una drastica riduzione dei tempi, previa visita extramoenia (ovvero in ambulatorio privato e a pagamento) dallo stesso ginecologo che poi avrebbe praticato l’intervento «in costanza di ricovero», scavalcando in modo indebito altri pazienti in attesa, avvalendosi in ciò della compiacenza (diciamo così) di colleghi e personale aziendale.

Un’opzione illegittima, praticabile soltanto attraverso l’elusione delle procedure - è l’assioma condiviso dagli addetti ai lavori - una circostanza che avrebbe richiesto il concorso di più figure ospedaliere. Perciò il trio ispettivo non si è limitato al caso Litta (quest’ultimo, pur gridando al complotto, si è autosospeso dal servizio d’assistenza proseguendo invece la docenza accademica) ma ha allargato il raggio d’azione ad altre discipline chirurgiche, concentrando l’esame sugli interventi preceduti da una visita in libera professione e procedendo, stavolta, per campione: altri 250 i casi finiti sotto la lente per un dossier alquanto corposo che entro il mese sarà consegnato in forma di relazione finale al direttore della sanità del Veneto, Domenico Mantoan, incaricato da Zaia di far luce sui risvolti amministrativi del malcostume.

Che altro? In attesa di apprenderne i contenuti, vale ricordare che questa indagine segue e per certi versi si intreccia a quella compiuta dal servizio ispettivo del Consiglio regionale su mandato del presidente della commissione sanità, Fabrizio Boron. Quest’ultimo, allertato dalla polemica divampata sui “furbetti del cartellino”, ha chiesto di accertare, a ritroso, la correttezza delle timbrature segnatempo da parte dei camici bianchi che al lavoro istituzionale abbinano l’attività liberoprofessionale intramoenia (cioè tra le mura ospedaliere): sono dotati di un badge che certifica la fine del servizio pubblico e l’inizio delle visite a pagamento ma - in circa centocinquanta casi nel triennio alle spalle - hanno omesso di ricorrervi, incorrendo così nelle sanzioni del direttore generale Luciano Flor, che ha trattenuto loro dallo stipendio l’equivalente delle somme percepite: circa 110 mila euro “spalmati” su una cinquantina di medici.

Secondo il rapporto pervenuto a Palazzo Ferro-Fini, ciò è avvenuto a causa dall’inadeguatezza dei controlli, addebitata in larga parte al direttore sanitario Daniele Donato. Il manager, per parte sua, ha respinto al mittente le critiche, affermando che proprio «il monitoraggio continuo e accurato in Azienda» ha consentito di appurare le suddette irregolarità, pari comunque allo 0,01% delle prestazioni il cui fatturato (grazie al 20% di competenza sulle parcelle) assicura ogni anno decine di milioni di introito al bilancio della sanità padovana.
 

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