C’era una volta il Canton del Gallo e il traffico con il vigile in pedana

Un salto tra il Bo e il municipio dove pulsava il cuore antico della futura Patavium In molti resta il ricordo dell’altare laico dal quale officiava il gran sacerdote delle quattro ruote

l’amarcord



Un po’ di rispetto per ciò che oggi calpestate: sono tremila anni e passa che quel luogo è solcato da piede umano. Qui i protopadovani piantarono per la prima volta le tende, intorno al 1200 avanti Cristo, quando fondarono la futura Patavium, nell’area compresa tra municipio e università; qui pulsava il cuore antico della città.

Ancor oggi ne rimane il punto centrale, anche se il nome odierno l’ha preso solo a metà del Novecento: se quel crocevia si chiama Canton del Gallo, lo deve a un’osteria o locanda aperta fin dal Duecento, e il cui ingresso a quanto si narra era sormontato da un gagliardo gallo in legno, muto testimone di generazioni di assetati che “in hoc signo” hanno trovato ristoro.

Gli odierni padovani iscritti all’anagrafe degli “anta” avanzati conservano un particolare ricordo del luogo, legato alla Befana: quando il Natale era solo una ricorrenza religiosa, e i regali arrivavano il 6 gennaio a cavallo della scopa dell’amata quanto temuta vegliarda.

Nell’immediato secondo dopoguerra, in una città ancora non fagocitata dal moloch dei motori, in mezzo a quell’incrocio troneggiava una pedana dalla quale un solerte vigile urbano dirigeva il traffico. E il giorno dell’Epifania gli automobilisti, all’epoca ancora minoranza sia pur già rumorosa, dimenticavano per un giorno i rancori di un anno contro la categoria, depositando ai suoi piedi panettoni, bottiglie di spumante e piccoli regali: trasformando quel piedestallo in una sorta di altare laico su cui officiava il gran sacerdote delle quattro ruote.

Da qui ci si muove a raggiera lungo i quattro punti cardinali della città. Restando a ridosso del Canton, la via VIII Febbraio vanta i quattro quarti di nobiltà della toponomastica cittadina, incastonata com’è tra l’antica università, il palazzo comunale e il Pedrocchi; e l’impronta araldica è ribadita anche dal nome, che fa riferimento ai moti antiaustriaci del 1848.

In realtà, la sua etichetta originaria era molto più prosaica: si chiamava del Bo, dal nome dell’ateneo, a sua volta derivato dalla presenza dell’antica locanda “Hospitium Bovis”, divenuta sede dell’università solo a fine Quattrocento; prima, era quello che oggi chiameremmo un albergo di buon livello con annesso garage, dove all’epoca i commercianti e viandanti parcheggiavano le bestie durante la notte.

Peraltro, sempre a beneficio dei padovani “anta” assai, va ricordato che fino agli anni Sessanta del secolo scorso quel tratto di strada per tre giorni all’anno, a cavallo dell’8 febbraio, diventava un grande palcoscenico all’aperto dove l’intera città partecipava con grande sollazzo alla proverbiale “festa della matricola” gestita dalla goliardia, con tanto di sfilata dei carri allegorici.

Siamo nel cuore della zona delle piazze; ma prima di addentrarci in essa occorre fare una piccola ma significativa deviazione, entrando nella zona del Ghetto ebraico, istituito agli inizi del Seicento: il più importante dell’intero Veneto dopo quello di Venezia. Un’area piccolissima nell’estensione geografica, proprio come quello veneziano, ma con un grande fervore di attività: nell’epoca della massima attività ospitava tre sinagoghe (di rito italiano, tedesco e spagnolo), e ben 64 negozi; vi abitavano un migliaio di persone.

Nell’odierna Via delle Piazze oggi sorge un piccolo ma prezioso museo ebraico, ospitato nell’ex sinagoga tedesca.

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