C’era una volta il pane dei ricchi. E il senso segreto della festa

Nei giorni di festa tutto dev’essere speciale. Anche il pane. Tanto che fin dal Medioevo i fornai avevano il permesso di preparare il pane dei ricchi e regalarlo ai clienti più poveri che potevano cibarsi di solo pane di miglio durante il resto dell’anno. Sempre in quell’epoca, il pane dei ricchi comincia a essere arricchito con miele, uvetta e zucca. Tanto che il milanese Pietro Verri, nel Settecento, lo definì “pane di tono”, di lusso, mentre sembra che tra i nobili della Serenissima fosse molte in voga il “pan de oro”, un dolce ricoperto da sottili foglie d’oro.
L’origine del panettone e del pandoro nasce da qualche parte nelle maglie di queste usanze, arricchite di storie e leggende. E da due grandi protagonisti della pasticceria del Novecento: Angelo Motta, che a Milano mette a punto la ricetta del panettone facendo aumentare l’impasto tre volte prima della cottura definitiva; e Domenico Melegatti, che a Verona s’ispira all’antico nadalin (a forma di stella, farcito e glassato) e crea il pandoro togliendo tutti gli ingredienti che ostacolano la lievitazione e scegliendo uno stampo che richiami la tradizionale forma di stella. Un’altra cosa è certa: sono entrambi dolci lievitati a lungo, preparati con ingredienti un tempo “da ricchi”, come il burro, il miele e la farina di puro frumento. Ma le cui lunghe lievitazioni, simili a quelle delle focacce alte che a Natale si preparano in tante regioni italiane, evidenziano soprattutto come siano dolci “dell’attesa”. Quella delle feste più importanti. —
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