Clinica medica, in sette per stanza e due bagni per oltre 20 ospiti

Emergenza posti letto e spazi nel reparto al nono piano del monoblocco dell’Azienda ospedaliera I pazienti non possono neanche sostare nella saletta tivù occupata dai medici con i loro computer
Di Cristina Genesin

Il dottor Doug Ross non abita qui. Gli ospedali ultramoderni con candido mobilio, arredi di prim’ordine e bagni perfetti si vedono sono nelle serie tivù come E.R. La realtà? Tutta un’altra cosa. Lo sanno i tanti pazienti ricoverati nella Clinica medica terza, nono piano del monoblocco. Un solo “punto di forza”, il panorama mozzafiato. Il resto? Da dimenticare, a partire dagli stanzoni a sei letti (già troppi) dove in questi giorni viene inserito un letto in più. Distanza tra un paziente e l’altro? Neanche un metro, lo spazio giusto per infilare il “braccio metallico ” che sostiene una flebo o la sedia per ospitare un familiare. Gianfranco Zecchinato è un distinto padovano che si ritrova a essere paziente, come potrebbe capitare a ognuno di noi. E non riesce a tacere il proprio sconcerto: «L’altra sera è stato inserito nella stanza il settimo letto. Tenendo presente che c’erano in camera anche due assistenti notturne, ci siamo ritrovati a trascorrere la notte in nove». Fiato contro fiato, respiro contro respiro. «Un paio di volte sono stato operato all’ospedale di Aviano» racconta. Altro che stanze da sei come a Padova: «Sono al massimo da due e, appena fuori dalla sala operatoria, i pazienti vengono sistemati addirittura da soli». Privacy garantita a chi è in condizione di particolare fragilità. Lo “spettacolo” della Clinica medica terza, invece, è desolante: quando cammini lungo il corridoio e infili la testa negli stanzoni (alternativamente assegnati a uomini e donne, non c’è un “braccio” separato) si avverte un senso di miseria e il respiro viene quasi a mancare. Ci si chiede: come si può stare male ed essere costretti a tanta forzata ”condivisione” proprio nel momento in cui un essere umano avrebbe più che mai necessità di silenzio e di un angolo all’ombra dove ripararsi dagli occhi altrui? Il tempo non passa mai in ospedale. Almeno c’è la sala tivù comune. Niente da fare: in Clinica medica terza la stanza (nell’angolo due tivù, al centro un grande tavolo) è occupata da medici che lavorano ai loro pc. «Vorrei veder la tivù...» la timida domanda di un degente. «Si accomodi di là (nell’atrio all’ingresso del reparto), qui dobbiamo lavorare» la secca risposta. E i bagni? Gianfranco Zecchinato accompagna in tour: due water per 20-25 ospiti maschi (fuori, nell’antibagno, due piccoli lavandini con micromensola). La doccia di quel servizio non funziona: per lavarsi, prego dirigersi verso un’altra doccia, alcuni metri più avanti, e un water in più attrezzato per disabili: appena si apre la “cabina” il tanfo di muffa è francamente poco gradevole. «Ecco queste sono le condizioni di noi pazienti» sorride cortese il signor Gianfranco. Intorno altri “colleghi” annuiscono e chiedono magari un po’ più di gentilezza: «Ci sono infermiere squisite... Qualcun altro o altra, oltre a dare sistematicamente del “tu”, usano linguaggi poco convenienti». Ieri, in corridoio, un operatore socio-sanitario a gran voce: «Resisti e non c...ti addosso che dopo arrivo...». Superlavoro, certo. Stress continuo. Vita dura, quella dell’ospedaliero. Ma cosa costa un po’ di stile?

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova