Coronavirus. Cianci: "È bastato uno sguardo per capire. Stava per iniziare una lunga battaglia"

L’intervista
È bastato uno sguardo. Una frazione di secondo per condividere preoccupazione e urgenza. E per capire che tutto era cambiato. Sono passati quaranta giorni da quel 21 febbraio, quando il Veneto tra i primi veniva chiamato a fare i conti con il coronavirus. Attorno al tavolo dell’Unità di crisi c’era anche Vito Cianci, direttore dell’Uoc di Pronto Soccorso dell’Azienda ospedaliera.
Cosa ricorda di quella sera?
«Ci hanno allertati in emergenza nella sede dell’Usl 6: c’erano tutti, dai direttori sanitari al presidente Zaia».
Quando ha capito che la situazione era grave?
«Subito. È stato sufficiente guardare negli occhi chi avevo vicino per capire che stava per nascere una nuova fase del nostro lavoro che ci avrebbe assorbito per lunghi giorni. Più ancora delle parole spese a quel tavolo sono state la velocizzazione negli interventi e la massima attenzione delle istituzioni. Ci siamo detti: prepariamoci, sta per iniziare una lunga battaglia, partiamo a testa alta. Quando sono uscito dalla riunione, alle 21, stavo già chiamando la mia coordinatrice, che è stata fondamentale. Abbiamo organizzato gruppi di Whatsapp e a tarda notte ho mandato la prima mail a tutti. Il mattino successivo ciascuno era al proprio posto».
Com’è gestire l’emergenza ai tempi dell’emergenza?
«Significa reinventarsi secondo modelli organizzativi completamente nuovi improntati al massimo di variabilità, dinamismo e mutevolezza. Significa definire protocolli e percorsi e dopo 24-48 ore modificare di nuovo tutto per adattarsi all’evolvere della situazione. Ogni ospedale ha un piano per gestire l’emergenza in caso di un massiccio afflusso di feriti, di vittime di attacco nucleare o chimico e questo vale anche per la gestione del rischio microbiologico. Ci eravamo già allenati con l’H1N1, la Sars ed Ebola, ma nulla era mai stato paragonabile al coronavirus per numeri e qualità dell’impatto clinico-gestionale. Non ci siamo mai trovati con una cinquantina di pazienti che in un breve arco di tempo presentano caratteristiche che possono sottendere al virus».
Cosa è cambiato?
«Prima come medici prendevamo in carico i malati. Da fine febbraio, invece, si è creata una nuova forma di condivisione tra sanitario e paziente, perché curare il malato ora significa esporre anche noi stessi. Dal punto di vista operativo ho dato subito direttive sull’accesso dei pazienti con sintomi sospetti di infezioni respiratorie o gastrointestinali: andavano messi in isolamento e trattati con i dispositivi di protezione individuale».
Ora il Pronto Soccorso è stato riorganizzato in maniera “strutturale”.
«È stato diviso in due: c’è un Pronto Soccorso Covid, o “sporco” e uno Covid free o “pulito”. Le persone vengono orientate in base a una valutazione preliminare nella tenda posta sia davanti alla struttura centrale che a quella del Sant’Antonio, anch’essa sotto la mia direzione. L’ex area rossa e l’ex ambulatorio per codici minori sono stati destinati al Covid, mentre nell’ex area verde è stato riorganizzato il Pronto Soccorso Covid free».
Chi lavora nel Pronto Soccorso Covid?
«Tutti, a rotazione. Nel Pronto Soccorso centrale abbiamo 25 medici, 60 infermieri e 14 operatori sociosanitari. Con questi numeri garantiamo anche l’osservazione breve intensiva H24 al piano terra del reparto di Malattie Infettive: qui collochiamo i casi sospetti in attesa dell’esito del tampone, in modo da garantire una maggior sicurezza per tutti».
Quanti casi di coronavirus avete visto?
«Dal 20 al 29 marzo abbiamo visto 263 pazienti sospetti, quindi 26-30 al giorno».
L’attività tradizionale ne ha risentito?
«Di solito vediamo 260-280 pazienti al giorno con punte di 330. I primi 10 giorni di marzo sono andati progressivamente riducendosi, dai 211 del 2 marzo, ai 104 del 15. Il dato è rimasto fermo per una settimana per poi arrivare a un minimo di 85. Di fatto erano rimasti solo i codici rossi e gialli, ma dal 26 marzo hanno cominciato a rivedersi i codici minori e i numeri registrano un’iniziale apertura di fiducia».
Come sono i malati che hanno contratto il coronavirus?
«Quando vai in battaglia anche il generale deve schierarsi al fianco dei soldati, quindi anch’io faccio i turni. La cosa che mi ha colpito sono gli occhi delle persone. Abbiamo tutti le mascherine, ma laddove non puoi parlare, lo sguardo dice tutto. E sono sguardi carichi di paura e imploranti conforto. E non stiamo parlando solo di anziani, ma anche di adulti tra i 40 e i 55 anni. La domanda che fanno tutti è: ce la farò, mi garantisce che ne verrò fuori? Sono momenti di grande comunione. A noi non resta che dare speranza: stia tranquillo, facciamo tutto quanto è necessario e vedrà che ne verrà fuori nel migliore dei modi».
Non ci sono solo anziani.
«Loro sono stati l’elemento dominante della prima fase, ma in quella successiva abbiamo cominciato a vedere anche giovani che abitualmente godono di buona salute e non fanno uso di farmaci. Restano a casa più a lungo, fino a che vedono che anche spostarsi da una stanza all’altra gli toglie il respiro. È a quel punto che si fa strada la paura di una certa evoluzione della malattia».
Com’è la tenuta emotiva dei suoi collaboratori?
«Hanno dimostrato un grandissimo spirito di adattamento e di sacrificio. Sono persone temprate all’emergenza, ma stanno comunque dando una risposta incredibile. Sono contrario alla retorica che ci disegna come eroi, ma vorrei dedicare loro una statua. Hanno capito subito la serietà della situazione, ma non per questo ho mai visto qualcuno lasciarsi andare allo sconforto, anzi tendiamo a sdrammatizzare, anche con i pazienti quando possibile. Il riposo minimo è garantito a tutti per assicurare piena lucidità ed evitare che si ammalino d’altro. Abbiamo incrociato le nostre vite con questo virus e abbiamo eretto un muro in difesa. Senza queste persone la situazione sarebbe stata ben diversa. È in questi casi che ti rendi conto dell’importanza del gruppo. E io ho un gruppo coeso, solido».
Ci sono stati contagi?
«Nella prima fase abbiamo avuto due positivi da contagi esterni, segno che i dispositivi funzionano. Del resto tra gli operatori la positività è all’1,1% su 4 mila persone, un tasso bassissimo».
Avete mai paura?
«Certamente, io per primo. Guai se non fosse così, vorrebbe dire che abbiamo sviluppato una coltre di impermeabilità e distacco pericolosi. La tranquillità ci viene dal fare più che si può, sul fronte dell’impegno e della conoscenza».
Cosa le dicono a casa?
«I miei figli mi chiedono perché sono ottimista malgrado tutti questi morti. E io spiego loro che la malattia ha un andamento nel tempo ma che le cose cominciano ad andare meglio. Dal mio osservatorio posso dire che il virus era partito molto forte in Veneto, ma che abbiamo gestito un nemico inizialmente sconosciuto con la strategia giusta».
Quindi vede la famiglia?
«A volte giusto per un saluto: magari arrivo alle 22 e squilla subito il telefono. Ho fatto per due volte il tampone e sono risultato negativo, teniamo comunque le distanze perché un minimo di paura di essere l’untore ce l’ho sempre, ma li vedo sereni. Semmai mia moglie, che è cardiologa, vive la situazione con maggiore apprensione: mi dice sempre di stare attento. Ma di questi tempi, male non fa». —
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