Da Giotto a Petrarca i grandi geni italiani nella Padova del 1300

di FRANCESCO JORI
È una città la cui classe dirigente, politica ed economica, considera la cultura una risorsa strategica, la Padova del Trecento: e che ad essa offre un terreno fertile in cui esprimersi al meglio.
Lo sperimenta Giotto, che vi arriva nel 1303, a 36 anni di età, nel pieno della sua maturità artistica. A chiamarlo è il banchiere Enrico Scrovegni, forse nella speranza di farsi perdonare dal Padreterno i soldi dati a prestito dal padre Reginaldo con interessi da strozzino, come si maligna nei salotti padovani dell’epoca; voci raccolte perfino da Dante Alighieri, che nella Commedia lo relega direttamente all’inferno, nel girone degli usurai.
Sia quel che sia, dall’inferno dantesco al paradiso della pittura il passo può essere molto breve, Enrico chiede a Giotto di affrescargli la cappella di famiglia, a fianco della chiesa degli Eremitani. L’artista rimane in città per due anni, dipingendo il ciclo più famoso della storia della pittura, che rompe con la precedente tradizione: «Il miglior dipintor del mondo», lo definirà Boccaccio.
Gli vengono affidati incarichi anche dai frati del Santo per la Basilica, e dal Comune per il Palazzo della Ragione; a Padova opera in varie fasi, fino al 1317.
Una trentina di anni dopo arriva un’altra grande firma dell’epoca, accogliendo l’invito di Jacopo II, della potente dinasty dei Carraresi, il quale governa la città dal 1345. Il poeta ha 44 anni, ed è già celebre in tutta Europa, anche grazie alla vasta risonanza dell’evento dell’8 aprile 1341: quando a Roma in Campidoglio è stato solennemente incoronato “magnus poeta et historicus”, e gli è stato conferito il “privilegium laureae”. Giunge a Padova nel marzo 1349, ed è accolto con grandi onori.
Pochi mesi dopo Jacopo gli assegna il canonicato di San Giacomo presso la Cattedrale: si tratta di un beneficio ecclesiastico che comporta tra l’altro una consistente rendita perpetua (200 ducati d’oro l’anno), e che richiede in cambio l’espletamento di alcune funzioni liturgiche (da ricordare che il poeta in gioventù aveva abbracciato la carriera ecclesiastica, prendendo gli ordini minori). Gli viene pure attribuita una casa su due piani (8 camere, 3 granai, 2 cantine, una stalla e un orto), ancor oggi visibile in via Dietro Duomo.
Lasciata Padova per qualche tempo, il poeta vi ritorna nel 1361, su invito del signore dell’epoca, Francesco il Vecchio, figlio di Jacopo II, che a lui si è molto legato in gioventù. L’anno successivo, una violenta epidemia di peste lo induce a trasferirsi a Venezia, dove trascorre sette anni in un palazzo di Riva degli Schiavoni, concessogli dalla Serenissima in cambio del lascito della sua preziosa biblioteca, e dove nel 1363 ospita l’amico Boccaccio.
Nel 1368, l’affettuosa insistenza di Francesco lo induce a tornare stabilmente a Padova, nella casa di via Dietro Duomo, dove tra l’altro può contare su un’ampia cerchia di amicizie di intellettuali che gravitano attorno alla prestigiosa università.
Su invito di Francesco, riprende l’opera “De viribus illustris”, una raccolta della vita di 36 famosi personaggi dell’antichità: la dedicherà al Carrarese, e sarà di ispirazione al ciclo di affreschi oggi visibile nella sala dei Giganti.
Ma la sua salute si è fatta precaria; così lo stesso Francesco decide di fargli dono di un terreno sui Colli Euganei, ad Arquà, in località Ventolone, dove potrà godere di un clima più salubre. Su quell’appezzamento sorge una casa che Petrarca fa ristrutturare a proprio uso e consumo, seguendo personalmente i lavori; con piena soddisfazione, come attesta la lettera indirizzata all’amico Moggio Moggi: «Potessi mostrartela! È il mio secondo Elicona, che ho preparato per te e per le Muse. Sono certo che se tu lo vedessi non te ne vorresti più allontanare».
Qui Petrarca si impegna in un intenso lavoro: compone poesie, rimette mano al “Canzoniere”, scrive un’ampia lettera a Francesco da Carrara (che a differenza di troppi odierni politici, dei consigli altrui sa fare tesoro) esponendogli le proprie tesi su come governare una città e garantirle un avvenire pacifico, dal titolo “Qual esser debba chi regge il governo della sua patria”.
In quello stesso 1370 accoglie l’invito a Roma di papa Urbano V, che ha riportato in Italia da Avignone la sede papale, tra l’altro su insistenza dello stesso Petrarca. Si mette in viaggio, ma all’altezza di Ferrara viene colpito da una sincope che lo costringe a ritornare ad Arquà, dove lo raggiunge la figlia Francesca con il marito Francescuolo da Brossano e la piccola Eletta.
Si spegne nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, proprio nel giorno in cui compie 70 anni.
Nel paese euganeo viene sepolto dopo funerali solenni, celebrati il 24 luglio alla presenza della corte Carrarese, dei vescovi di Padova, Verona, Treviso e Vicenza, di molti docenti e studenti dell’ateneo e di una folta rappresentanza del clero patavino.
L’elogio funebre viene pronunciato da un suo carissimo amico, Bonaventura Badoer, frate agostiniano.
Sei anni dopo il genero, assecondando la sua volontà, gli fa erigere l’arca marmorea vicino alla chiesa dove il poeta oggi riposa.
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