Da imprenditore a detenuto: «Mi misi al servizio del clan»
Da vittima dell’usura a collaboratore dei “colletti bianchi”, con la pistola infilata nella cintola, legati al casertano Clan dei Casalesi. Da imprenditore, titolare di due società, a detenuto arrivato a Palazzo di giustizia con le manette ai polsi e la scorta della polizia penitenziaria. Triste destino quello di Andrea Milani,44 anni, padovano d’origine con residenza a Rovigo in via della Costituzione, anche se attualmente la sua “casa” è una cella del penitenziario cittadino. Inghiottito dai debiti, s’era rivolto ad Aspide, formalmente una società di recupero crediti, in realtà impresa del crimine specializzata nel prestare soldi a usura, con uffici prima a Mestrino in via Dante poi a Padova in via Lisbona, capeggiata dal boss Mario Crisci, detto “o’ dottore”, oggi in carcere. Tra pestaggi e minacce, rischiava grosso chi non rispettava gli accordi sui pagamenti. Andrea Milani, stritolato dal perverso e delinquenziale meccanismo, è passato dalla parte del torto, restando schiacciato due volte: sul piano finanziario, con la perdita di tutto quel che aveva, e su quello umano, con la perdita della libertà. Ieri, incalzato dalle domande del pm della Direzione distrettuale antimafia di Venezia, Roberto Terzo, ha raccontato la sua vicenda davanti ai giudici del tribunale di Padova chiamati a giudicare la posizione di quattro tra i 27 imputati nell’ambito dell’operazione anti-camorra, l’ex imprenditore padovano Jhonny Giuriatti, 38 anni di Saccolongo, Elisa Lunghi, 42 di Bubbiano (Milano), Alberto Parisi, 49 di Mondragone e Marzio Casarotto, 44 di Bagnolo di Po (Rovigo), accusati a vario titolo associazione a delinquere di stampo mafioso a scopo di usura. «Fu il mio ragioniere commercialista di Lendinara a indirizzarmi a Crisci» ha spiegato Milani ai giudici, «Ero in difficoltà: in sei mesi avevo fatturato 6 mila euro contro i 100 mila dell’anno precedente, le banche non mi avrebbero più concesso finanziamenti e i clienti non pagavano. Crisci propose a me e al mio socio, mio fratello, di cedergli le nostre due società compresi i debiti pagando 6 mila euro. Firmammo l’atto da un notaio alla presenza di Crisci e di Antonio Parisi (coimputato): la ditta venne intestata a una donna prestanome». I guai sono soltanto all’inizio: «Non avevo più disponibilità, avevo bisogno di soldi per le necessità quotidiane. Così mi rivolsi di nuovo a Crisci che mi aveva detto di prestare danaro. Mi prestò 45 mila euro al tasso mensile del 10%. Riuscii a pagare i primi mesi, poi non ce la facevo più a sborsare 4 mila e 500 euro mensili». Convocato in più occasioni negli uffici di Mestrino e di Padova, Milani fu minacciato: «C’erano Giuriatti, Parisi e altri.... Crisci diceva: “Sono stato anche troppo buono con te... Veniamo a casa da te e da tua moglie, sappiano dove abitate”. Parisi mi fece vedere la pistola dentro la cintura dei pantaloni e aggiunse: “Se non paghi, sappi che questa è per te... Non scherziamo... Rischi tu e i tuoi figli”. Ma io non ero in grado di pagare». E, allora, arrivano le prime richieste: la cessione di schede telefoniche intestate a società di Milani. «Successivamente mi chiesero di presentare loro imprenditori in difficoltà come me... E io lo feci: presentai a Crisci I.C., il titolare di una concessionaria cui furono prestati 30 mila euro. Tuttavia non mi decurtarono nulla, benché avessero promesso di scalare il debito del 10%». Milani mise in contatto pure altre persone con Crisci: un collega di Treviso che non accettò le condizioni imposte, una signora di Rovigo e il titolare di una ditta di Montagnana. Iniziò una spirale senza fine, interrotta dall’arresto di Crisci e dei complici: il procedimento nei loro confronti si sta discutendo davanti al gip di Venezia. Per Giuriatti e gli altri tre imputati il processo continuerà il 9 luglio. In aula si è costituito parte civile il Comune di Padova tutelato dall’avvocato Ettore Santin del foro di Venezia.
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