Da Prato a Padova per avere i permessi falsi

PADOVA. C’erano poliziotti che la sera andavano in via Bixio e in via Cairoli per tentare di bonificare il “Bronx” nato all’ombra della stazione e altri che invece ci andavano di pomeriggio per fare affari d’oro. È il patto diabolico stretto tra una costola deviata della Questura di Padova e la comunità cinese. Un patto che ha prodotto centinaia di pratiche false e quindi di regolarizzazioni addomesticate. Poco importa se gli immigrati con gli occhi a mandorla non conoscevano la lingua italiana, non avevano una residenza o un contratto di lavoro. C’era chi pensava a tutto, con timbri, firme e autenticazioni. Questo, negli anni, ha fatto di Padova una sicura porta d’ingresso in Italia. I membri della comunità cinese di Prato venivano nella città del Santo per ottenere il tanto agognato permesso di soggiorno. La voce si era sparsa. Sapevano che bastava pagare e le porte della Questura magicamente si spalancavano.
È una storia triste di pubblica amministrazione malata quella inquadrata nell’ordinanza firmata dal gip Margherita Brunello. Una storia di furbi e furbastri, di poliziotti pagati dallo Stato ma anche da chi delinque. Pierangelo Capuzzo, l’impiegato dell’Ufficio immigrazione arrestato il 6 settembre scorso mentre stava ricevendo una tangente dal broker Xinmiao Chen, ha vuotato il sacco. Agli investigatori della Squadra mobile ha spiegato, per esempio, chi era veramente Renzo Dalla Costa, sovrintendente capo in forze all’Ufficio tecnico logistico dopo un lungo periodo trascorso proprio all’Ufficio immigrazione. Era lui, la “volpe”, la chiave di volta di questo sistema pensato per gabbare gli stessi colleghi impegnati nella polizia giudiziaria. Questa indagine è nata per caso.
Telefonini “walkie talkie”. La Guardia di finanza stava intercettando i telefonini di alcuni membri della comunità cinese quando è stata registrata una conversazione “strana”, in cui un italiano parlava di Questura e di permessi di soggiorno. Eppure l’utenza era intestata a un cinese. Dai successivi accertamenti si è scoperto che quell’italiano era Pierangelo Capuzzo e quel telefonino sotto copertura era la sua tecnica per non farsi scoprire dai colleghi. La Squadra mobile, che già qualcosa aveva fiutato, stava intercettando il telefono “ufficiale”. Quindi quello sbagliato. La tecnica dei telefonini “walkie talkie”, cioè usati solo per comunicazioni esclusive, era stata introdotta da Renzo Dalla Costa e dal suo referente con la comunità cinese: Hu Xiaoling, detto “Emilio”, residente in via Bixio 6 ed ex gestore di un ristorante in via Cairoli. Doveva finire in manette insieme al poliziotto ma è ancora irreperibile.
La “Piovra” di Dalla Costa. I turni svolti in Questura, nell’ufficio a due metri da quello del questore, erano nulla in confronti al lavoro che questo poliziotto si era creato fuori. Dalla Costa collaborava infatti con lo Studio Negra di piazzale Stazione 7 e con lo Studio Unico di corso Stati Uniti. Non solo. Per lungo tempo è stato in contatto e anche in affari con Diana Curjos, ragazza moldava che aveva un ufficio al Centro Ingrosso Cina di corso Stati Uniti, dove faceva i test di italiano. Grazie a questi contatti il poliziotto riusciva a fungere da collettore, facendosi carico di risolvere tutte le pratiche che giungevano dalla comunità cinese. Per una di queste pratiche, particolarmente complessa, è riuscito a farsi pagare anche 20 mila euro. La circostanza è emersa durante gli interrogatori.
Il sistema. Funzionava così. Dalla Costa raccoglieva le pratiche da sistemare. Lui che fino al 2015 era stato una delle colonne dell’Ufficio immigrazione era riuscito a creare ottimi contatti lì dentro. Dunque anche quando ha chiesto di andarsene, ha continuato a manovrare questo o quel collega. Negli uffici della Squadra mobile sono emersi i nomi di Fausto Fanelli, di Devis Manoni, di Vito Pacifico e anche di Gianfranco Volpin. Dunque i cinesi venivano accompagnati in Questura da fantomatici “interpreti” che in realtà altro non erano che i referenti di Dalla Costa. Una volta lì contattavano lui e ricevevano indicazioni precise di rivolgersi a Capuzzo, a Fanelli o a Manoni. Questa è la ricostruzione resa in sede di interrogatorio e quindi messa nero su bianco nelle carte di questo secondo filone di indagine. I cinesi che beneficiavano del permesso di soggiorno “agevolato” pagavano sia i connazionali intermediari che i poliziotti. «Duemila euro era solamente la somma che bisognava corrispondere al poliziotto chiamato “volpe”, mentre noi chiedevamo altri mille euro: 500 per me e 500 per Diana. I soldi ci venivano corrisposti al ritiro del soggiorno». Ha detto Xinmiao Chen durante gli interrogatori. “Chiudere un occhio”, di questo si trattava.
Certificati falsi. Il sistema prevedeva che alcuni cinesi bisognosi di permessi di soggiorno di lunga durata o di altro tipo potessero contare su un’istruttoria che in realtà non avveniva. Era sufficiente che la pratica fosse segnalata da un agente “amico” che ne assicurava il rilascio dietro un versamento di un corrispettivo. L’attestato di conoscenza della lingua italiana veniva rilasciato da tre enti accreditati: le università di Siena, Roma 3 e Perugia. Gli attestati erano stati falsificati e riprodotti in serie, con tanto di timbro e firma perfettamente sovrapponibili. L’impiegato allo sportello all’Ufficio immigrazione doveva verificare, in sede di colloquio con l’interessato, che la conoscenza della lingua fosse effettiva. Ma ciò non avveniva.
Da Prato a Padova
«Verso la fine dello scorso anno Xinmiao Chen mi ha parlato di un suo connazionale di nome “Ding” che abitava Prato ma che in quel capoluogo non riusciva a regolarizzare la sua posizione in questo Paese» ha raccontato una delle persone interrogate. «Mi ha chiesto se conoscessi qualcuno al locale Ufficio immigrazione che poteva seguire la sua pratica. D’impeto mi è venuto automatico dirgli che poteva rivolgersi a Renzo Dalla Costa e lui mi ha detto che in effetti Vito Pacifico gli aveva detto di fare riferimento a lui». Segue tangente di mille euro consegnata a Dalla Costa all’interno di una busta. E pratica pronta nel giro di pochi giorni. A un certo punto l’aria si è fatta pesante tra i corridoi dell’Ufficio immigrazione. La dirigente Tullia Galiussi si era resa conto che qualcosa non andava e ha alzato la sorveglianza. Dalla Costa ha ammesso più volte di sentirsi “osservato”.
Pizzino sequestrato a Capuzzo. Il giorno dell’arresto in flagranza di Pierangelo Capuzzo gli uomini della Squadra mobile gli sequestrano anche un foglio che lui teneva piegato in una tasca. È un foglio su carta intestata della Questura di Padova dove sono annotati i numeri seriali di 6 pratiche. Le pratiche corrispondono ad altrettanti cinesi in attesa di un permesso di soggiorno. Era un “pizzino” che Dalla Costa aveva consegnato a Capuzzo, con la promessa di occuparsene nei prossimi giorni. Dunque gli investigatori sono andati a vedere chi c’era dietro quei numeri seriali. Per quattro cittadini cinesi la pratica era stata istruita presentando un attestato di residenza in via Mure 18 ad Agna. Circostanza verificata con l’Anagrafe di quel Comune e risultata palesemente falsa. Falsi anche altri due documenti che attestavano le residenze in via Tommaseo 13 e in via Tommaseo 17 a Padova.
Prenotazioni anche via internet. Uno dei cinesi interrogati ha ammesso di essersi imbattuta in un annuncio sul sito internet www.huarenwang.com che reclamizzava la possibilità di ottenere il test di italiano livello “A2” contattando un numero di cellulare. «Ho contattato quell’utenza, l’interlocutore mi ha dato appuntamento in stazione ferroviaria a Padova. Quando ci siamo incontrati gli ho spiegato che volevo richiedere la carta di soggiorno nonostante non conoscessi la lingua italiana». Due incontri in stazione, uno in Questura e la questione è stata sistemata. A Padova funzionava così.
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