Dalla Chiesa: «Maniero è stato comparsa di una società fatta su sua misura»

La prefazione a un libro che ricostruisce il rapporto tra «faccia d’angelo» e il Veneto. «Non era solo una mala, termine talora circonfuso di un’aura romantica nella letteratura folclorica del Nord» 

«Abbiamo trovato sacchi e sacchi di denaro nelle rive del Brenta. Seppellivano i morti, seppellivano i soldi, seppellivano la droga, seppellivano i quadri rubati. La loro banca era quella»

Francesco Zonno, ex dirigente della Criminalpol del Triveneto

Il Libro

"La mafia del Brenta. La storia di Felice Maniero e del Veneto che si credeva innocente"

Arianna Zottarel
Arianna Zottarel


Della Mala del Brenta tutti conoscono il boss indiscusso Felice Maniero, la sua sfrontatezza, le rapine e le fughe rocambolesche. Meno si parla del potere feroce imposto nel Veneto per vent’anni.

In questo libro Arianna Zottarel spiega le origini e l’evoluzione di un’organizzazione criminale speciale usando fonti orali, atti giudiziari e decenni di articoli di stampa: dalle rapine miliardarie al controllo delle bische, dal traffico di droga alle armi.

E poi ancora i sequestri di persona, gli omicidi e i legami con le altre mafie. L’autrice cuce cronaca e analisi alla ricerca delle ragioni culturali, politiche e sociali che hanno permesso a una nuova organizzazione mafiosa di adattarsi e di radicarsi velocemente nel contesto veneto, dando vita a un modello di mafia autoctona e originale, autonoma dalle mafie storiche di altre regioni. Pagina dopo pagina si ripercorre una storia simbolica e per certi aspetti stupefacente, fino alle vicende più recenti.

L'autrice

Arianna Zottarel, nata a Treviso, si è laureata in Scienze sociali per la ricerca e le istituzioni presso l’Università degli Studi di Milano nel 2016, sotto la direzione del professor Nando dalla Chiesa. Nello stesso anno ha vinto il Premio Pio La Torre-Piersanti Mattarella per la migliore tesi di laurea magistrale sulle mafie e la criminalità organizzata.

Collabora con Cross, l’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata dell’Università degli Studi di Milano. Ha lavorato alla ricerca sulla “Storia dell’educazione alla legalità nelle carceri minorili” per il Miur ed è cultrice della materia per il corso universitario di Sociologia e metodi di educazione alla legalità. Con questo libro ha vinto il Premio I Quaderni di Trame 2018.

Dalla Chiesa

Nando Dalla Chiesa, direttore dell'Osservatorio sulla criminalità organizzata e docente all'Università di Milano, ha scritto la prefazione al libro di Zottarel. Ne riportiamo qui sotto un abstract, su gentile concessione della casa editrice Melampo

La presentazione del libro alla Feltrinelli di Padova
La presentazione del libro alla Feltrinelli di Padova


Quel nome, Felice Maniero, fa ormai parte della storia criminale del Veneto. Ma forse, ancora di più, ha messo la sua bandiera nella teoria generale della mafia. Rendendola più inquieta, più problematica. Si pensi solo alle spiegazioni classiche del fenomeno mafioso.

Originario del latifondo abbandonato, di campagne assolate e senz’acqua, dove la fine della feudalità era arrivata con secoli di ritardo e dove l’ordine pubblico era appaltato a bande private di facinorosi. Oppure, stavolta con il nome di ’ndrangheta, originario di luoghi scoscesi e inaccessibili a ogni polizia, figlio di piccoli paesi, di leggi e costumi ancestrali. Oppure, con il nome di camorra, frutto avvelenato di quartieri cittadini sovrappopolati e privi di servizi, brulicanti di analfabeti e disoccupati. O, infine, fenomeno trapiantato in zone lontane da quelle di origine grazie a leggi improvvide (il celebre “confino”), che hanno trasformato contrade civili e progredite in destinazione collettiva di boss potenti e sanguinari.

Ecco, con Felice Maniero e la sua “Mala del Brenta” tutto cambia. Perché quella vicenda criminale che segnò la storia del Veneto degli anni Ottanta e Novanta smentisce senza appello l’idea che la mafia possa nascere solo in contesti poveri o arretrati o degradati. E smentisce pure la convinzione che se essa esiste e prospera lontano dai luoghi di origine ciò dipenda, alternativamente o insieme, da uno Stato autolesionista che l’ha disseminata ovunque o dalla spinta autonoma di uomini e clan a risalire la penisola alla conquista dei suoi territori più ricchi. Una smentita sorprendente e a suo modo dolorosa.

La stessa denominazione originaria dell’organizzazione, “Mala del Brenta” appunto, che ha tenuto banco a lungo nelle cronache, rispecchia fedelmente lo stupore e l’imbarazzo mentale di una regione ma anche dell’opinione pubblica nazionale. Entrambe riottose o riluttanti, per quanto ampia fosse la definizione di associazione mafiosa introdotta nel codice penale dalla legge Rognoni-La Torre nel 1982, ad applicarla a una organizzazione sbucata direttamente dal cuore della società veneta, dalle profondità della sua provincia.



La legge, in effetti, lasciava ben aperti gli spazi interpretativi. Prevedeva come soli requisiti dell’associazione il ricorso all’intimidazione e la capacità di produrre assoggettamento e omertà, specificando anche che la norma riguardava sì direttamente la mafia siciliana e la camorra napoletana, ma si applicava anche alle organizzazioni locali che possedessero quei requisiti, “comunque localmente denominate”. Tuttavia il passo culturale necessario per riconoscere come “mafia” qualcosa che non aveva a che fare con siciliani e in genere con meridionali, si rivelò faticoso.

Molto più che una prova semantica, costituì un’autentica prova di libertà intellettuale e di consapevolezza civile. Una scomoda chiamata a guardarsi allo specchio. Risolta solo in sede giudiziaria. Qui la verità definitiva fu affermata negli anni Duemila.

Non si era trattato di una “mala”, termine talora circonfuso di un’aura romantica nella letteratura folclorica del Nord, di cui si trovano tracce anche nel soprannome di cui il boss del Brenta fu gratificato, “faccia d’angelo”. Ma, come chiarito dalla Corte d’Assise di Venezia già nel 1994, si era trattato di una mafia vera e propria, a sua volta beneficiaria di diffuse connivenze sul territorio veneto, e di cui avevano fatto parte anche professionisti veneti.
Per la letteratura scientifica come per il senso comune era una rivoluzione.

La mafia del Brenta: né figlia di un “classico” contesto di mafia né effetto del travaso al Nord di interessi e personaggi mafiosi in cerca di nuovi territori. Il Veneto, d’altronde, era rimasto abbastanza estraneo ai flussi demografici che avevano mutato volto al Nord-Ovest durante e dopo il boom economico, e che avevano fatto da involontaria coperta per gli spostamenti mafiosi verso le regioni settentrionali. Anzi, era stato esso stesso, più povero e contadino, origine di movimenti migratori.

Non è senza significato che ancora oggi la presenza dei clan siciliani e calabresi vi si manifesti in misura incomparabilmente minore rispetto a quella riscontrata nelle provincie della Lombardia occidentale o di Torino, come indicano con certezza le principali ricerche scientifiche sull’argomento1 o le stesse più recenti relazioni della Commissione parlamentare antimafia.



(...)

Arianna Zottarel ha in effetti cercato di attenersi al principio che la conoscenza del fenomeno mafioso deve alimentarsi di una molteplicità di fonti e richiede la collocazione degli elementi di fatto acquisiti dentro una cornice storica ampia. Perché solo così è possibile dar loro un senso oggettivo, capace di andare oltre quello attribuito loro dai protagonisti e dagli osservatori dell’epoca, che pure è materia (non piccola) della realtà da indagareNe è uscito un testo finalmente completo su una vicenda che è apparsa spesso altra cosa.

Ci dice che la “Mala” era una “Mafia”. Che la pianta della mafia può spuntare ovunque. Che la rimozione ne è, con la corruzione, la prima decisiva complice. E che i Felice Maniero sono solo astute e feroci comparse, che esattamente come i politici e i finanzieri di ventura, possono giungere a esercitare il potere grazie a una società che per qualche anno, talora per troppi anni, sembra fatta esattamente su loro misura.

Anche quando è innocente.

"Io sono felice"

Felice Maniero fotografato nel 2018
Felice Maniero fotografato nel 2018

 

Nel luogo dell’incontro arriva in auto, una vettura di piccola cilindrata, con la compagna Marta. Guida lei, lui tiene in braccio un cagnolino, «ora che i figli sono grandi, abbiamo Bau», dice accarezzandolo.

I capelli sono brizzolati, come la barba studiatamente incolta. È vestito bene e parla bene, l’immagine rimanda esattamente a quello che è oggi: un imprenditore. Dietro alle lenti, gli occhi rivelano però anche l’altra identità, quella che appartiene al passato.

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Francesco Saverio Pavone, magistrato in pensione, è stato protagonista del primo maxiprocesso contro la mala del Brenta. Ben prima della sua evoluzione in autentica holding criminale, ben prima delle evasioni di "faccia d'angelo", ben prima del suo "pentimento". Ma cosa è emerso, dal punto di vista del tessuto delinquenziale, dalle ceneri della banda Maniero?

 



 

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