Damiano Pipinato, l'imprenditore padovano con 40 milioni di nero

L'inchiesta della Finanza sui fondi illegali nei paradisi fiscali: suo anche il capannone di Mediaworld e un palazzo di via Porciglia, ma non è indagato per riciclaggio

VENEZIA. Nell'inchiesta sul cosiddetto tesoro di Galan, condotta dalla guardia di finanza, salta fuori in Svizzera una lista di imprenditori veneti che riciclavano il nero nei paradisi off-shore. O meglio, che affidavano i loro guadagni in nero ad uno studio che si occupava di reinvestirli. Quindi, di riciclarli.

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A sorpresa e con un ruolo di grande rilievo soprattutto per il livello di somme investitie, figura nell'ordinanza - citato decine di volte - anche un imprenditore padovano, tra i molti che sfruttavano la centrale di riciclaggio dei fondi neri costituita di fatto secondo l'accusa dallo studio padovano Penso-Venuti: Damiano PIPINATO, accusato di "reiterata evasione" nell'ambito della gestione della Pipinato Calzature Spa, somme "impiegate per investimenti in Medio Oriente dalla metà degli anni Duemila".

Guido e Christian Penso dello studio Pvp di Padova sono accusati di averlo aiutato a riciclare, "costituendo una serie di sofisticati strumenti economico finanziari all'estero e prevalentemente in paesi offshore, al fine di impedire l'identificazione dell'origine delittuosa delle somme trasferite".

Va chiarito che Pipinato non è accusato di riciclaggio e che ha anche regolarizzato nel frattempo le sue pendenze con il Fisco, come chiede di rimarcare il suo legale di fiducia.

In parallelo, Pipinato aveva costituito un "autonomo canale illecito di trasferimento all'estero" con cui aveva costituito altri fondi neri. L'occultamento di parte del proprio patrimonio, scrive il giudice delle indagini preliminari David Calabria nella sua ordinanza, comprende una palazzina di via Porciglia a Padova detenuta tramite una società panamense, il capannone sede di Mediaworld a Padova e quello della stessa Pipinato Calzature.

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Pipinato ha parlato, spiegando i meccanismi del riciclaggio ed è stato lui stesso, scrive il giudice, a quantificare "nella misura complessiva di oltre 40 milioni di euro l'entità dei capitali accumulati evadendo il fisco e successivamente gestiti per suo conto dagli indagati".

Il post-it nella scatola. Tale era il rapporto tra Pipinato e lo studio Penso-Venuti che la consegne del denaro da far sparire nei paradisi fiscali avveniva così: "In una scatola di cartone che Guido Penso era solito riporre in un armadio dello studio, senza neppire aprirla, consegnando al contempo a Pipinato a mo' di ricevuta un post-it sul quale era vergato, a mano, l'importo che l'imprenditore aveva riferito corrispondere al denaro contenuto nell'involucro".

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