Due febbraio 1420: l’incendio devasta il Salone del Palazzo della Ragione di Padova

Il rogo che distrusse il capolavoro di Giotto: c’è un testimone oculare

e c’è chi dice che le fiamme sono partite dal tetto, dai tramezzi, da una bottega...

Andrea Colasio

Come sarebbe stato raccontato il famoso incendio al Palazzo della Ragione del 1420, se ci fosse stato un giornale locale, come quello che state leggendo? Abbiamo chiesto ad Andrea Colasio, – storico e assessore alla cultura del Comune di Padova – di cimentarsi in una rivisitazione “giornalistica” di un fatto che ha segnato la storia cittadina.

Ci sono volute ore e ore di duro impegno da parte di centinaia di persone, soldati e popolani, per sedare le fiamme che il 2 febbraio 1420 hanno quasi distrutto il Palazzo della Ragione. Con l’aiuto dei carri e con contenitori d’acqua improvvisati, botti e secchi, ci si è dati da fare per spegnere l’incendio e impedire che si propagasse agli edifici vicini: l’intera città avrebbe potuto essere distrutta.

Dalle piazze antistanti il Palazzo lunghe catene umane si sono incanalate per le vie cittadine, fino ai pozzi, e al fiume dove attingere l’acqua. Il fuoco e le fiamme hanno avvolto completamente l’edificio; il calore era tale che si è sciolto persino il piombo della copertura, quella realizzata da Giovanni degli Eremitani, il frate enzegnero, che aveva trasformato, tra il 1306 e il 1309, l’edificio: l’imponente Palatium Magnum.

Ci si è interrogati sin da subito sulle cause: sono stati ascoltati molti testimoni, ma le versioni sono contrastanti. C’è chi dice di aver visto le fiamme propagarsi dal tetto; altri affermano che il fuoco è partito dai tramezzi in legno che separano i vari deschi, i tribunali contrassegnati dai riquadri con gli animali. Altri sono convinti che le fiamme siano partite da una bottega, sotto il Salone, dove un operaio ha dimenticato una candela accesa, vicino a delle corde.

L’ipotesi della candela dimenticata accesa nel Tribunale o nella Bottega è molto plausibile: il 2 febbraio era una di quelle serate fredde, con l’umididità che ti penetra nelle ossa e che i padovani conoscono bene. Una fiamma e complice la stanchezza, il sonno deve essere arrivato: così lentamente l’incendio si è propagato su tutto l’edificio.

Alcuni mormorano che siano stati i nuovi padroni della città, i veneziani, a incendiare l’edificio: come a voler umiliare del tutto gli odiati carraresi, che lì venivano insigniti dello status di capitani e signori generali di Padova: ma è solo fantasia.

Sicco Polenton è uno dei testimoni oculari: è riuscito a entrare nel Palazzo. Ha visto per terra le colonne lignee annerite dal fuoco e le cinghie di cuoio che fungevano da collante.

Va detto che, a voler smentire le illazioni che circolano, la Serenissima si è subito impegnata a ricostruire l’edificio. Certo non si potrà restituire alla città il capolavoro di Giotto, così decantato da Giovanni da Nono: “Duodecim coelestia signa et septem planete cum suis proprietatibus in hac chopertura, fulgebunt, a Zotho summo pictore mirifice laborata et alia sidera aurea cum speculis et alie figurationes similiter fulgebunt interius”.

Ci resterà la piccola consolazione di poterlo immaginare a partire dall’affresco di Jacopo da Verona, che ha dipinto il controsoffitto ligneo su cui l’artista e la sua bottega avevano realizzato il grande ciclo astrologico, con la dotta consulenza di Pietro d’Abano.

Oggi il Palazzo è distrutto. Ma ci piace pensare che fra molti secoli sarà ancora lì a parlare ai padovani e a tutti coloro che verranno a Padova a scoprire le sue numerose ovre meravejose; quelle che, come scrivevano decenni fa i Gatari, ciaschedun forestiero desidera di vedere per singolare cossa.

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