È morto Sandro Viola Ha raccontato il mondo che cambiava

di ALBERTO FLORES D’ARCAIS
Anche Sandrino se ne è andato. Dopo una lunga malattia ci ha lasciati Sandro Viola, 82 anni, uno dei grandi inviati di “Repubblica”, a fianco di Eugenio Scalfari fin dalla fondazione del giornale. Sandrino. Lo chiamavamo cosë, quasi fosse un compagno di scuola e a lui non dispiaceva, anche se a dividerci c’erano trent’anni di età e di professione. Allora in redazione eravamo un centinaio, molti giovani e qualche grande firma, e per chi lavorava agli Esteri Sandrino aveva sempre qualcosa da raccontare, un consiglio da dare, una battuta per sdrammatizzare, un burbero ma affettuoso rimprovero se non aveva gradito qualcosa. Nelle chiacchiere da corridoio non nascondeva il suo snobismo, anzi lo accentuava. Vestito sempre in modo impeccabile si divertiva a raccontare aneddoti sulle capitali del mondo, sugli hotel, i ristoranti, le marche di whisky. Ma quando si parlava di politica estera, di grandi leader internazionali, di mondi lontani diventava serio, spiegava fin nei dettagli lo “scacchiere internazionale”.
Aveva girato il mondo in lungo e in largo ma le sue grandi passioni erano soprattutto due: il blocco dell’Est (l’Unione Sovietica in particolare) e il Medio Oriente. Gli piaceva raccontare il Pcus di Breznev visto dall’interno, fu uno dei primi ad accorgersi delle potenzialità di Gorbaciov, i meccanismi dei grandi poteri assoluti e monolitici lo affascinavano, era convinto che l’Urss non potesse crollare ma seppe ammettere senza problemi il suo errore. Nei mesi caotici che seguirono il “golpe” del 1991 mi trovavo a Mosca e Sandrino dopo il crollo dell’Urss venne a scrivere una serie di reportages. Mi invitò a cena in uno dei vecchi ristoranti sovietici cari alla nomenklatura ormai sconfitta e guardò desolato tavoli vuoti e vecchi camerieri. «Qui venivo con le mie fonti, in posti come questi annusavi un potere che mi sembrava indistruttibile. Mi sono sbagliato, a furia di parlare con funzionari di partito ho capito come funzionava il Pcus ma non cosa succedeva nel paese».
Non aveva pregiudizi, cercava prima di tutto di capire, ma quando era convinto di una cosa sapeva schierarsi. Non nascondeva le sue simpatie per la causa palestinese e qualcuno, un po’ frettolosamente, arrivò a bollarlo di antisemitismo. Lui rispondeva con un’alzata di spalle, «sono e resto un grande amico di Israele». Sapeva descrivere grandi avvenimenti (dalle guerre in Medio Oriente al rapimento Moro) e piccole storie con la stessa prosa, elegante ma senza inutili fronzoli. Quando i suoi articoli arrivavano in redazione attraverso i vecchi telex non c’era bisogno di fare correzioni, al massimo si eliminava qualche refuso dovuto alla fretta. E la mattina dopo era il primo a ringraziare.
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