«È un bello show tv Musica? Un pretesto»

Il direttore di Radio Deejay: oggi in Italia mancano i talenti Nella sua classifica personale Battisti, Feliciano e Vasco
Di Maria Rosa Tomasello

Carlo Conti l’ha sottolineato con orgoglio. Per il suo esordio all’Ariston è tornato alle origini, rispolverando gli esordi da dj: «Nella selezione ho pensato soprattutto al mondo radiofonico, a brani che possano essere canticchiati da tutti: quello è il vero successo». E Linus, direttore di Radio Deejay, la voce e il volto più noti della radiofonia italiana, che ha ospitato il presentatore nei giorni scorsi, si dice convinto che Conti farà un buon lavoro. Ma sullo stato della musica italiana è meno ottimista.

Che idea si è fatto di questo Festival?

«Mi pare un Festival più “pulito” dei precedenti, nel senso che Fazio o altri che l’hanno preceduto avevano un’identità molto più forte, hanno fatto manifestazioni che somigliassero al loro cliché abituale: Carlo è più “asettico”, è più il presentatore classico, credo che farà il Festival più rigoroso che si potesse fare, tenendo conto di quello che la tv è diventata».

Cosa pensa dei cantanti in gara? È forse un cast meno forte dell’anno scorso.

«È la foto del panorama italiano di questo momento: c’è grande penuria di nuovi talenti e artisti interessanti, il Festival non poteva fare miracoli. Con quello che c’è in giro credo sia una squadra decorosa».

Lo guarderà?

«Con un occhio solo, per dovere. Faccio parte di questo mondo, è giusto che lo segua, con la curiosità professionale e con l’affetto di uno che c’è cresciuto. Ma non è più la finale della Champions, una cosa che sposta i destini. Tant’è che si fa quasi fatica a ricordare chi ha vinto gli ultimi, o chi ha partecipato. Anzi, è sorprendente che stiamo qui a parlarne»

A proposito, ricorda chi vinto l’anno scorso?

(Ride) «Ehmm, Emma...?»

Arisa.

«...con Controvento, che era pure una delle più belle canzoni di Sanremo degli ultimi anni».

Da un punto di vista discografico meglio i talent?

«I talent in questo momento sono l’unica fucina di talenti, gli unici nomi italiani importanti ahimè o per fortuna sono usciti dai talent. Però tutto il resto manca, perché è venuta a mancare l’industria discografica. Non si fanno più dischi, non c’è nessuno che investe. Nella nostra stagione migliore, gli anni Settanta, i cantanti venivano “costruiti”: si individuava un personaggio con talento e poi gli si affiancava il paroliere, il produttore più adatto. Oggi questo percorso non lo fa più nessuno. I nostri giovani cantanti più importanti sono Tiziano Ferro e Cesare Cremonini, che non sono più bambini neanche loro».

Non è una crisi di creatività quindi.

«No, è strutturale. Non è possibile che non ci siano più cantanti nuovi da far crescere solo in Italia: che abbiamo in meno rispetto a inglesi, francesi? Anzi, in questo momento sono cadute le barriere linguistiche, sempre di più nelle classifiche si trovano il cantante tedesco, israeliano, irlandese, non più solo americani e inglesi, e gli unici che restano fuori siamo noi».

Chi è favorito? Tra l’altro in gara c’è una “voce” di Deejay, Platinette...

«La partecipazione di Platinette è più di contenuti che di classifica, immagino qualcosa di teatrale. Sugli altri non so, non ho sentito le canzoni, aspettiamo».

Del meccanismo, potendo, cosa cambierebbe?

«Credo che sia stato corretto aver tolto un po’ di potere al televoto, rischiava sempre di vincere non il più bravo o la canzone migliore ma chi aveva il maggior numero di fan. Ma io credo che il Festival sia come l’Italia: con talmente tanti vincoli formati negli anni che c’è poco da entrare a gamba tesa. Nasce come spettacolo musicale, ma da vent’anni a questa parte è uno spettacolo tv col pretesto della musica. Ci prenderemmo il giro se dicessimo il contrario. Il Festival degli anni Sessanta e Settanta era talmente importante che ci andava tutta la crema della musica italiana e non solo, ci sono passati come concorrenti Stevie Wonder e David Bowie. Oggi è un bello spettacolo tv. Punto».

Tre canzoni che restano, e che le appartengono?

«La mia paura è di risultare nostalgico. Però: “Un’avventura” di Lucio Battisti, “Che sarà” di Josè Feliciano, e “Vita spericolata” di Vasco. Ma molte di quegli anni che sono state altrettanto importanti e in questo c’è la misura della differenza tra quello che era e di quello che diventato dopo: ci sono almeno venti canzoni italiane presentate su quel palco che fanno parte del Pantheon della musica, tutte degli anni Sessanta e Settanta. Dagli anni Ottanta in poi fai fatica a metterne insieme dieci».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova