È UN BENE VIVERE. O VIVERE BENE?

Darsi la morte è un crimine o una forma di ribellione? Spunti per una riflessione
Al centro, il Cristo morto di Andrea Mantegna che incanta e intimorisce
Al centro, il Cristo morto di Andrea Mantegna che incanta e intimorisce
Nell'età lieve in cui ci si interroga con leggerezza sulla cosa ultima un amico morì in un grave incidente. Alcuni si consolarono dicendo che non aveva sofferto e non si era accorto di nulla. Non so per quale motivo esclamai che dal momento che si muore una volta sola, a me sarebbe piaciuto accorgermene e vivere la morte fino in fondo.  Fu una spacconata delle tante che, a quell'età si fanno e si dicono. Non ricordo se qualcuno mi contraddisse - è probabile di sì - ma, per un qualche motivo quella frase mi rimase in testa, quasi indicasse una via da percorrere. O un malessere dal quale non mi sono liberato. Così vedo l'onore della malattia che rende tutti protagonisti e la pietà degli amici, che si fanno in quattro ed accorrono al capezzale di chi soffre.  Secondo l'interpretazione che guida le scienze storiche-antropologiche, l'uomo rifiuta fin dall'inizio la morte: fa esperienza di essa a poco a poco, conoscendo dapprima il timore del nulla, la quiete della notte ed il silenzio che incombe con il timore di non svegliarsi. Poi conosce il dolore e vede il proprio corpo, che si disfa ed oppone sempre meno resistenza alla stanchezza ed alle malattie. Infine si fa luce la consapevole certezza dell'ineluttabile sconfitta. Tuttavia la morte si combatte ancora, evocando l'idea di un'altra vita, che renda inutile la morte separandola dal corpo. Ed io, stupido, che con arrogante leggerezza dissi: voglio viverla questa morte, perché altrimenti irripetibile.  Persino Gesù di fronte al bambino cieco esclama: «così è piaciuto...». Vi è un senso ineluttabile di ingiustizia nell'uomo, che vive, spera, sogna, soffre per finire poi nel nulla della morte sapendolo fin dall'inizio. L'uomo, secondo Heidegger, è storia, nel senso che si è fin che si vive, tanto che la decisione anticipatrice della morte altro non è che l'affermazione di questa assoluta storicità: veniamo da mortali e lasceremo il posto ad altri mortali. Gli stoici affermano che il saggio, seguendo la ragione, porrà fine alla propria vita per la salvezza della patria e degli amici, qualora sia tormentato da dolori insopportabili, o sia afflitto mutilazioni o da mali incurabili. E nella tradizione giudaico cristiana, la morte volontaria come testimonianza di sé e del bene ha guidato la storia degli uomini.  Ancora oggi chi si avvia alla fortezza di Masala sente la forza degli Zeloti che lì, durante la prima guerra giudaica preferirono darsi la morte piuttosto che accettare la schiavitù imposta loro dai romani. Così come, durante la prima crociata, nel 1096, furono molti gli ebrei che, nella regione renana, si uccisero per non accettare la conversione forzata al cristianesimo. Senza dire del parnaso dei martiri, che per affermare il cristianesimo affrontarono con sicura volontà la morte, inflitta sì da altri, ma cercata al fine di testimoniare l'Altissimo.  Non è questo ciò che cerco: l'uomo non è un eroe e la scelta del martirio è scelta di vita e di potere. Non spiega la morte e non dà speranza nell'affrontarla. Forse è questo che esclamai allora, condannandomi a ricordarlo sempre: conoscere la morte per sperare di batterla. Se sai come, quando e perché muori non puoi temere nulla. Un illuminismo inconsapevole che mi forza a ragionamenti luciferini. Ma no, non illuderti, mi dico, lo sai fin dall'inizio che non è possibile sapere la morte. Tema inquietante l'idea di martirio, là dove il supremo atto di saggezza degli stoici diventa, nel correre dei secoli testimonianza di guerra, ed anche il martire infine è uomo che combatte la morte, vivendo il martirio come sconfitta della morte Socrate chiede a Critone: «resta vero o no che estremamente importante è non tanto vivere, quanto vivere bene?». Gli fa eco Seneca che a Lucilio scrive: «la vita come sai non merita di essere conservata. Non è un bene vivere ma il vivere bene».  Io che esclamai che volevo conoscere la morte, rimango stordito. Se la morte è irrilevante nel corso della vita, che senso ha conoscere la morte? Conta è vero vivere bene e vivere con onestà e giustizia è la stessa cosa, dice Socrate. Ma nemmeno Socrate accontentò i suoi concittadini, se è vero che la cronaca del suo processo è testimonianza di saggezza per Platone, ma banale cronaca degli atti di un eccentrico per Senofonte. Eppure, quando il giovane Critone insiste per la fuga e quindi per la vita, ciò che guida Socrate sono le leggi, che ha rispettato per diventare marito e padre e che ora rispetta quando deve accettare i giudizi, ancorché sbagliati. E questo perché, dicono le leggi, «lungi dall'imporre con asprezza ciò che ordiniamo noi non facciamo che proporre, lasciando la libertà di scelta tra persuaderci ed eseguire».  Dunque vivere bene è vivere con saggezza, entro il discorso, dirà Aristotele, l'unica facoltà umana essendo la persuasione. Obbedire alle leggi, perché si è persuasi, tanto che l'unico modo di eseguire le sentenze capitali per i cittadini ateniesi è bere volontariamente la cicuta. Dovrei accontentarmi di fronte a quella saggezza, ma Seneca rifiuta la vita imposta e rivendica la morte come atto di libertà e di rivolta contro le leggi che lo farebbero vivere. Con sgomento leggo che «considero molto vili le parole di quel rodiese, che, rinchiuso in una gabbia per ordine di un tiranno e nutrito come una bestia, a chi gli consigliava di rifiutare il cibo, rispose: "finchè c'è vita c'è speranza". Anche se fosse vera questa affermazione non bisogna comprarsi la vita a qualunque costo. Ammettendo pure che ci siano vantaggi grandi e sicuri,non cercherò mai di ottenerli con una disonorevole confessione di viltà. Dovrei pensare che tutto può la fortuna in chi resta in vita, anziché pensare che niente può la fortuna in chi sa morire?».  Ammiro la sicurezza di Socrate che vuole andare d'accordo con le leggi, ma la sfrontata volontà di Seneca, che pretende di morire con solitaria dignità mi inquieta. Si vive per sconfiggere la morte, scrive Elias Canetti: ma occorre capire quando la battaglia è persa. Non mi accontento: rifletto e mi tormenta l'idea di destino, l'idea dell'inutile affanno della mia vita e lo stupore di fronte all'anima. Già, l'anima: Socrate rivendica l'obbedienza consapevole alle leggi perché solo così si avvererà il sogno, quando una donna gli venne incontro vestita di bianco dicendo «Il terzo giorno, o Socrate giungerai a Ftia piena di zolle». Ma la morte è rivolta, libertà e dignità ci ricorda Seneca. Dignità, libertà di chi? Dell'anima, del corpo o dalle leggi? E se è libertà perché Telesforo grida senza pudore che fin che c'è vita senza speranza? Certo, non bisogna compiacere i nemici e, se del caso, occorre precederli, ma Seneca dimentica che quel corpo mutilato testimonia la ferocia di Lisimaco e chiama alla rivolta.  Già, testimonia, lascia in ricordo, riempie la cultura del mondo: più cerco di conoscere la morte, più parlo della vita.  I martiri, lo sappiamo, accettano la morte per una ragione di vittoria e combattimento e non esitano a portare altri con sé. Anche gli stoici muoiono per la grandezza della patria. Seneca e Socrate dicono che non conta vivere, ma vivere bene e le loro scelte sono scelte che ottimizzano la vita, ma nulla ci dicono della morte.  Forse conviene accontentarsi: in fondo chi sono mai io, per sapere la morte? Ma se la morte, con saggezza, con libertà, per la lotta, per testimonianza è atto di vita, è possibile dire come è giusto morire e quando è giusto morire? Quando poi il corpo mi ha abbandonato, tanto da non poter nemmeno rinunciare al cibo, come chiedevano a Telesforo, che fare? O meglio, gli amici che fanno, e che fanno i medici, che più degli amici possono l'unica cosa utile: sconfiggere il dolore? Seneca ricorda a Lucilio: «Troverai dei filosofi che negano il diritto di far violenza alla propria vita. Giudicano un'azione nefanda farsi assassini di se stessi, e sostengono che bisogna rispettare il termine stabilito dalla natura. Dire ciò significa non accorgersi che si chiude la via alla libertà».  La legge eterna non ha fatto meglio di questo: ci ha dato un solo modo di entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne. Dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando potrei andarmene sfuggendo ai tormenti e alla crudeltà? Questo è l'unico motivo per il quale non possiamo lagnarci della vita: essa non trattiene nessuno. Ed oggi, attaccato alla vita da una macchina, che non posso né fermare né governare, quando l'unica possibilità di comunicare è attraverso il luccichio degli occhi, chi può ragionevolmente dirmi di aspettare la fine naturale? E chi manovra la macchina al posto mio, rispetta la fine naturale della vita o la prolunga uccidendo insieme alla natura la mia libertà? Eppure così come Telesforo, quanti ancora consapevolmente dicono: fin che c'è vita c'è speranza?  Ma c'è veramente speranza dopo la morte della libertà? L'arrogante audacia adolescente che ha guidato la mia vita crolla e mi pongo, con angoscia solo una domanda: qualcuno può ragionevolmente normare la morte? E chi è tenuto a rispettare quelle norme? Non io che non posso più persuadermi di nulla, perché nulla il mio corpo, la mia mano e nemmeno la mia volontà può più fare o volere.  Gli amici che sono accorsi al mio capezzale e la cui pietà ha alleviato i miei dolori e che vedono ormai solo sofferenze senza speranza e senza libertà, che devono fare? Rispettare il termine naturale della vita che ritarda senza motivo o mettere fine ai tormenti? Non sfuggo alla risposta: sì, c'è chi giustifica le norme e lo fa perché pensa ad un'altra vita,che di per sé rende inutile la morte. Sono le religioni. E la libertà, allora, chiedo con sgomento? Le norme sono sì giustificate dalla vita ultraterrena, ma sono terrene, sono momento della vita e, se vere norme, devono persuadere ed essere obbedite da uomini vivi.  Infine lo ammetto: non si può conoscere la morte. C'è solo una consolazione: non sempre i saggi e i potenti sono buoni legislatori. Meglio a volte i poeti, come Don Chiscotte che, a Sancio Panza, governatore di un'isola che non c'è, raccomanda: «Ricordati: quando le leggi sono confuse, usa la misericordia».

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