Ecco gli Anforigeni il piccolo popolo dell’osteria blasé

di Paolo Coltro
Si può diventare “storici” in meno di vent'anni? Pare di sì, se questo avviene a furor di popolo, oppure per un miracolo, oppure perché la storia si forma velocemente per un incessante accumularsi di storie, esistenze vere, corpi parlanti: uno stillicidio continuo, inavvertibile come storia sul momento, ma dài e dài presto stalattite, solida e imponente. Così l’Anfora è diventata un locale storico pur essendo nata nel 1992. Non è questione di bruciare i tempi, ma di accostarli senza perderli, il tempo grande e i tempi di tutti, riempiti delle cose quotidiane come di quelle semplicemente straordinarie di cui ogni persona è capace. Perché soprattutto in un'osteria possono accadere cose straordinarie, spesso sotto il velo della più assoluta normalità. Così l'Anfora, per contenuto e contagio, è diventata essa stessa straordinaria: essendo un monumento alla normalità. Solo che “questa” normalità non c'è più. Non è più normale perdere il tempo per ritrovarlo. Ed è forse normale ritrovarsi a parlare, magari di idee contrapposte, con l'amabilità del rispetto reciproco? E' normale tornare ragazzi, ma coscienti, a settant'anni? Insomma, secondo voi, càpita ancora di vivere intensamente di umanità, in questo mondo che corre distratto se va bene, ostile se va peggio?
Siccome all'Anfora di tutte queste normalità sono piene le giornate, e le serate, e perfino i silenzi di chi «è solo, con piedi pesanti», quest'osteria è un unicum, e va storicizzata per non perdere nemmeno un frammento di quel passato che è ancora presente. La testimonianza prende la forma di un libro, molte foto e le parole necessarie, che è agli antipodi della celebrazione, non foss'altro perché l'artefice primo è quel Giovanni Umicini fotografo che è l'essere più diretto, immediato, privo di sovrastrutture che circoli a Padova. Gli fa concorrenza solo la sua Leica, anch'essa diretta, immediata e priva di sovrastrutture. Lui con un'anima ottuagenaria toscana, lei con la sua anima di pellicola, vera e vetero. Loro due insieme confusi (ma si può confondere Umicini? Con quel volto sagomato dalla sgorbia, una nuvola bianca di capelli resistenti e anarchici, lo sguardo a lampi di fierezza, e tra i lampi la bontà, signorilmente allampanato senza farlo sembrare), insomma loro due confusi ora in un angolo ora in un altro dell'osteria, ad essere parte di quel mondo con in più il preciso intento di coglierlo, di raccontarlo. Ci vogliono le immagini per descrivere meglio i momenti di vita, i sorrisi fuggitivi. Solo una fotografia ti mostra il cicaleccio senza suoni. Ed è il bianco e nero che non ti distrae con i colori, che perfino attenua le differenze sociali, che va dritto all'essenza: delle persone e del luogo. Sullo sfondo scuro del locale, senza mai essere violentati dal flash, si stagliano volti e gesti lunghi vent'anni, ma così individuali, così personali, in una parola intimi da essere stupefacenti in un esercizio pubblico. Scusate, ma definire l'Anfora un esercizio pubblico è una tale bestemmia che neanche Umicini... Osteria, va da sé, deriva dal latino hospes e quindi il nucleo è quello dell'ospitalità. All'Anfora è successo qualcosa di diverso. Gli ospiti, che da tutte le altre parti sono clienti, qui si sono quasi impadroniti del locale. Ne sono diventati gli abitanti, i residenti anche quando non c'erano fisicamente : qui si supera di slancio anche il concetto di habitués, perché la caratteristica comune non è andare lì e basta. E' andare lì e trasmettere qualcosa, inventarsi, fare molto di più che bere un bicchiere (o molti di più) di vino e mandar giù un boccone. Quello dell'Anfora è diventato un «piccolo popolo», definizione di Elio Armano, come tutti i piccoli popoli orgoglioso delle proprie peculiarità, e anche, come no?, della propria identità. Solo che stavolta la si potrebbe definire un'identità diffusa, contaminata e in cerca di contaminazione. Meritava un nome, questa tribù che sfugge alle mappe pur essendo visibilissima in pieno Ghetto, ed ecco che il battesimo arriva proprio da questo libro: Anforigeni. Un «particolare insieme» (Umicini) di tipi umani: tra loro, molti denominatori comuni possibili, così tanti che alla fine non ne resta granché. C'è la vicinanza fisica (il negoziante di tessuti, il fabbro, le signore “una piazza più in là”), quella intellettuale (tutti spiriti liberi), quella artistica (gente di cinema, gente di musica), magari il lavoro. Forte la tentazione di individuare all'Anfora un porto della patavinitas, che però più che causa probabilmente è effetto: coinvolge anche il suonatore di jazz d'oltreoceano, o l'indiano che vende rose e al terzo bicchiere (degli altri) ci riesce, o l'immigrato senza permesso di soggiorno. E non è folclore, perché all'Anfora cadono barriere, l'allegria trasporta cose sensate, non foss'altro un'educazione, magari istantanea, dello spirito. Non a caso si parla di rugby, e di vela, e di jazz, e di donne si parla ma più onestamente si sogna. Lì si vive un po' meglio, ricchi soprattutto della mancanza di forma e dell'immediatezza. Sembra naturale, sembra facile, ma non lo è. L'Anfora è praticamente l'unica osteria di Padova, con un ambiente giusto per un'umanità possibile, immagini, oggetti arrivati lì con una ragione, e che la perpetuano. Sopra il bancone, tanto per essere chiari, questa frase: «Nel paese delle bugie la verità è una malattia», e tutti a volersi ammalare a suon di bianchi e rossi. Qui si è fatta e si fa musica, ed ecco una specie di altarino con un presepe-jazz, una band coloured con i suoi strumenti, lì in alto da venerare. E i manifesti più strani: da “scrittori d'Irlanda” (ve lo aspettereste?) a “Il Signore dei Tranelli”, che più che un film sembra un monito. C'è la targhetta “refettorio” e c'è un'immagine di una signora con le gambe accavallate (si vedono solo le gambe): nel libro, un Anforigeno si bea della visione, in uno scatto di Umicini degno di Cartier Bresson.
Allora: l'osteria, il libro, le fotografie. E' già molto, perché la pubblicazione supera il documento tra cronaca e storia, funziona meglio di un'indagine sociologica, va al di là dell'amarcord di un branco di non astemi e non può essere classificata come semplice registrazione del costume. E' invece veramente il racconto di un piccolo mondo di un piccolo popolo: che si vorrebbero, e l'uno e l'altro, più grandi. Per i valori sui quali si reggono: che comprendono anche la risata, la goliardia, e massime il “ben star”. Naturalmente, c'è un demiurgo, e ce lo siamo tenuti in fondo come squillo di tromba: è Alberto, che di cognome fa Grinzato. Per dirla tutta: senza di lui, niente di tutto questo. Oste, di quelli veri e spariti. Ci ha messo un po' a capirlo: prima in giro per il mondo come camionista, poi portiere d'albergo (ma ce lo vedete? si è tagliato anche i capelli che aveva lunghissimi, per farlo: ma il vestito era troppo stretto). Finalmente, un bancone davanti a lui, e vino che gorgoglia e profumi di cucina. E, soprattutto, facce davanti, intorno, sempre. A quei tavoli Alberto vede gli amici invecchiare, i giovani perdersi negli occhi, ascolta le note malinconiche e quelle gioiose, il sabato mattina i fedelissimi dell'opera gli cantano le romanze. L'Anfora in vent'anni è diventata un vaso di Pandora.
Il fine era raccontare in un libro tutto questo. Il mezzo è stata la fotografia di Giovanni Umicini. Assieme all'Anfora, in questo libro c'è lui. Lungo vent'anni che dimostrano alta scuola, raffinatezza ma soprattutto sensibilità. Due foto per tutte: quella che sembra un quadro di Modigliani; e quella che raccoglie, dal fondo alla porta, tre generazioni: cercatele. Il fascino delle immagini “è” quello dell'osteria: che alla fine è il risultato più alto. Con un effetto in più: lo sfogliate, e vi sembra di fare un salto nel passato. Con la differenza che c'è ancora tutto, esattamente così, e continuerà: l'Anfora, gli Anforigeni, Alberto, Umicini...
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