L’ex operaio dell’Arcella: «La catena di montaggio, scuola di vita e di dignità»

Fabio Camporese ha lavorato per oltre un decennio all’ex Saimp: «Tra San Carlo e Pontevigodarzere ci vuole presenza dello Stato. Oggi servo relazioni»

Flavio Centamore
L’ex Saimp, alla rotonda di via Reni dove oggi è sorto un Interspar
L’ex Saimp, alla rotonda di via Reni dove oggi è sorto un Interspar

Classe 1958, padovano, Fabio Camporese ha lavorato per oltre un decennio alla Saimp, storica azienda metalmeccanica dell’Arcella. Un quartiere oggi residenziale e multietnico, ma che allora un vero polo industriale, fatto di officine e fabbriche che producevano, innovavano e davano lavoro a centinaia di persone. Quella di Camporese è una testimonianza preziosa: uno sguardo dall’interno su una stagione industriale che ha segnato la città e su un pezzo di Padova oggi profondamente cambiato.

Quando è entrato alla Saimp e quale ruolo ricopriva?

«Sono entrato nel novembre 1980. Ho iniziato come tornitore nell’officina meccanica, poi sono passato al reparto montaggio. Sono rimasto fino al ’93 e, dopo altri due anni di cassa integrazione, ho cambiato completamente mestiere, diventando agente di commercio».

Che azienda era la Saimp?

«Una vera fucina d’innovazione. Produceva fresatrici, torni, rettifiche di precisione: macchine che ancora oggi lavorano in aziende importanti, anche nell’automotive. Ferrari e Lamborghini, ad esempio, usavano le nostre rettifiche per gli alberi a camme. La progettazione era interna, c’era un know how fortissimo, tanto che si parlava di collaborazioni con le università. Era un fiore all’occhiello della città».

Quando l’Arcella era solo fabbriche: la storia dell’industria passa da qui
La vecchia Pessi Guttalin, in via Bordone, oggi area residenziale

Quanti dipendenti c’erano?

«Quando arrivai io, circa 350. Ma nei momenti di piena attività arrivò a 600 dipendenti. Era una fabbrica molto sindacalizzata: io stesso facevo parte del consiglio di fabbrica. Si facevano assemblee nella mensa, si parlava tanto del futuro».

C’era già il timore che l’azienda fosse in declino?

«Sì, si avvertiva. Più che per le rivendicazioni salariali, il malessere nasceva dalla preoccupazione per il futuro. Si temeva uno smembramento, e in effetti così è stato: nel tempo l’azienda è stata ridimensionata, riorganizzata, trasferita e ha cambiato nome. Quella Saimp che conoscevamo all’Arcella, con centinaia di operai e reparti di progettazione, non esiste più. Molti colleghi si sono ricollocati altrove, altri sono andati in pensione».

L’Arcella di allora era un quartiere industriale?

«Eccome. Era la prima zona industriale della città, lungo l’asse di via Tiziano Aspetti. C’erano pastifici, officine, piccole e medie imprese. Lì dove oggi c’è l’Interspar, c’era il cuore della Saimp. Era una zona viva, fatta di operai, tecnici, famiglie».

Com’è cambiata oggi l’Arcella?

«Luci e ombre. È un quartiere dinamico, con molte associazioni e realtà attive. Ma c’è ancora tanto degrado. Lo spaccio è una piaga, la viabilità è complicata. Ci sono zone che sembrano dimenticate, con edifici fatiscenti e persone che vivono in condizioni estreme. Servono più forze dell’ordine, ma anche servizi sociali, riqualificazione, presenza dello Stato».

E il famoso “stigma” della zona rossa all’Arcella?

«È diventato uno slogan ideologico, da entrambe le parti. Io penso che la questione sia più concreta: mancano servizi, sicurezza e attenzione. L’Arcella è popolosa, fragile, con tanti anziani soli. C’è bisogno di più presenza, umana prima che politica».

Cosa le ha lasciato in fondo l’esperienza alla Saimp?

«Mi ha formato come lavoratore, ma anche come uomo. Era un’azienda dove si imparava un mestiere vero, si stava insieme, si costruiva qualcosa. Una scuola, non solo di meccanica, ma di dignità». —

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