Ferdinando Camon: «Scrivere, un’infelicità per reagire alla vita»

Compie 80 anni e si definisce un narratore della crisi. Dalla campagna padovana al mondo:L "Vorrei parlare ai giovani"

PADOVA. «Gira questa voce che sto per compiere ottant’anni. Agli amici ho detto: “non tenetene conto”. Mia moglie si è vendicata: “se non ci tieni, pazienza. Mangeremo una pizza”. E andrà così, in fondo è di sabato. E come ogni sabato, cinema e poi pizza».

La voce corrispondeva al vero. Ferdinando Camon oggi compie ottant’anni. Il “narratore della crisi”, autore di memorabili pagine sulla civiltà contadina del Veneto e sugli anni che ne sono seguiti, tradotto, letto e amato in tutto il mondo, li attende un po’ impressionato («fino ai 70 me ne sentivo 28, poi sono diventati tanti all’improvviso») nella sua casa di Padova, immerso tra i libri - migliaia - che sono ovunque e catalogati uno a uno per stanza e ripiani, anche se molti potrebbe trovarli a occhi chiusi: alla sinistra della scrivania c’è tutto Freud, «l’ho consultato moltissimo», alle spalle i Garzanti, «i libri parlano, qui ci sono tutte le risposte».

Lo circondano, e circolano nel suo sangue di lettore, e soprattutto di scrittore: «La scrittura cambia nel corso della vita, a seconda di come dormi, di cosa sogni; cambia per una malattia che hai o anche solo che pensi di avere». Così è cambiata anche la sua, senza mai poter sapere se in tutte le lingue del mondo - fino al giapponese - i traduttori saranno riusciti a registrare queste sfumature che il tempo disegna sulle parole: «Io controllo solo il francese. I romanzi contadini sono molto difficili da tradurre, la lingua è bassa e terricola. In Francia, Gallimard aveva selezionato con un concorso un traduttore, Jean Paul Manganaro, che somatizzava il lavoro. Diceva che tradurre Calvino gli faceva venire il mal di denti, tradurre Camon gli dava ansia e insonnia».

Non è un bel dire, ma il professore capisce: «Io stesso, scrivendo, mi ammalo di ansia». Perché la scrittura, per lui, non è talento, non è mestiere: «È un modo di reagire alla vita. Alla vita, di solito, si reagisce agendo o parlando. Lo scrittore è un inetto, non sa agire, non sa parlare e allora prende tempo. La scrittura è frutto di un bisogno: dare una risposta non immediata e che duri tanto, per sempre». È quella che chiama «l’infelicità della scrittura».

Il racconto della civiltà contadina è il racconto della sua vita: «Mandai a Garzanti “Il quinto stato” e Garzanti lo mandò a Pasolini. Lui mi chiamò alle 5 di mattina per dirmi che il libro gli era piaciuto, che aveva scritto una prefazione e l’aveva già mandata all’editore. Mi chiamarono a Milano, in via della Spiga. Il libro c’è, la prefazione anche: lo pubblichiamo subito». E quasi subito, Jean-Paul Sartre volle che fosse tradotto in Francia.

Ricorda Pasolini come «una persona di immensa generosità, io ero nessuno, ero un esordiente», ma non condivide del tutto la prefazione: «Non c’era proprio nessuna tradizione da conservare. Io ero cresciuto in una casa che non aveva luce elettrica e nemmeno pavimento, estate e inverno scalzi sul pavimento di terra, le dita gonfie per i geloni e la pelle delle mani crepata dal freddo fino a sanguinare. Ero cresciuto tra riti e tridui, Dio e diavolo, morti e Dies Irae. No, in quella civiltà contadina non vedevo proprio nulla da conservare».

C’erano dentro tutta la forza e la violenza che servivano per scriverla, per estirparla da sé quasi. Anni dopo, Camon avrebbe scoperto che quei suoi libri erano i più amati in tutti i luoghi del mondo, dalla Russia al Sudamerica, dove la terra aveva fatto pagare all’uomo il prezzo altissimo della povertà. Le sue parole erano universali; in Argentina, invitato dall’Ambasciata a parlare agli studenti, i ragazzini - spesso figli di emigrati - lo accoglievano cantando l’inno di Mameli, la mano sul cuore.

La strada per diventare scrittore, vivere dell’immaterialità della parola, era tanto lontana da quella casa di campagna: «Ma io sapevo già alle medie che sarei stato uno scrittore. E c’era la cattolica certezza contadina: se vuoi una cosa devi meritartela». L’ha meritata, l’ha conquistata, l’ha pagata: l’ansia, l’insonnia, l’analisi. «Non avessi fatto lo scrittore sarei potuto diventare psicanalista».

La memoria lo ha portato a scrivere libri che sono finiti in atti di inchieste; “La vita eterna” e il racconto degli stermini dei nazisti nelle campagne padovane fanno aprire un processo contro il comandante di stanza a Este. Muore prima del processo, la Germania fa sparire ogni traccia della vicenda ma una docente da Potsdam lo chiama: «Voleva il libro per parlarne ai suoi allievi e conservare la memoria», quella che «il Veneto non ha di sé, e per questo disprezzo questa regione e questa umanità». Parole dure, ma non se ne è mai andato: «Non amo Roma e la Rai, non amo Milano e l’editoria industriale. Molti grandi scrittori sono stati miei amici, non ho mai usato queste conoscenze. Andarsene, dove?Bologna, forse. Ma mi sarebbe piaciuto veder nascere una grande casa editrice a Padova».

Dalla crisi della civiltà contadina al terrorismo, passando per la famiglia: dalla storia alla contemporaneità, che oggi a sua volta è già storia: «Mi chiedo, per me oggi come in passato mi chiedevo per Rigoni Stern, ma perché non ci chiamano nelle scuole a parlare agli studenti? Di memoria, di scrittura. Questo è un problema del Veneto, altre regioni lo fanno, valorizzano i loro scrittori anche in un percorso educativo».

Di Dio pensa che «è necessario che ci sia, non per spiegare l’inizio ma la fine, il giudizio». Però: «In un paese cattolico per credere in Dio devi credere nella Chiesa cattolica, e questo è difficile».

Ricorda quel giorno, la morte di sua madre, lui che va nella basilica di Sant’Antonio «perché nel luogo che le era più vicino, la chiesa, avrei potuto trovarla», si vuole confessare, ammette la lunga lontananza, spiega le ragioni: «Il frate mi ha cacciato, non ero degno. Non sono mai più tornato. Poi mi hanno spiegato che aveva dei problemi, ma ormai era andata così». Fuori da lì avrebbe eretto lui stesso un “Altare” per la madre.

Come padre (di due figli, Alessandro e Alberto) si sente tenuto da parte: «Sconto la colpa della mia generazione, essere nati sotto il fascismo ci ha fatti rifiutare dai figli rivoluzionari, ma ho una fortissima vocazione paterna». Come nonno di quattro nipoti (Elena, Teresa, Paolo e Lucia) sconta il fatto che «come i figli, anche i nipoti si confrontano in orizzontale, gli amici, la scuola, non i genitori, nemmeno i nonni». Ma nelle librerie dei figli, tanto a Bologna che a Los Angeles, ha scoperto che i suoi libri ci sono: «Con me non ne hanno mai parlato, poi se li sono comprati, evidentemente».

Ama la montagna, anche perché l’associa alla stagione di ufficiale Alpino, talvolta cucina (due risotti, quello ai funghi e quello al rosmarino, sono quasi una garanzia). Scrive quotidianamente, passa le giornate in studio, le serate in tranquillità con la moglie Gabriella Imperatori. Lei elegante e sottile, lui che dice di sé: «non so mettere insieme una giacca e una camicia».

Come accade alle più fortunate tra le coppie che hanno attraversato la vita insieme, quando sono nella stessa stanza non servono occhiate, l’intesa è qualcosa che si avverte nell’aria, è come un meccanismo che scatta a incastro. Lei si perde nella lettura, lui segue i tg, i dibattiti, «la Ferrari quando c’è, Valentino quando corre, l’Inter quando gioca». L’Inter che sta per dargli un dispiacere: «Sono iscritto al fan club, al compleanno tutti gli anni mandano gli auguri con una foto, si vede un giocatore con la maglia dell’Inter con il tuo nome sulla schiena, e i tuoi anni come numero. Ecco, vedere uno che corre in mezzo a un campo con scritto “Camon 80” non credo mi farà un bell’effetto».

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