Francesco Guardi il vedutista più libero

VENEZIA. «Questo pittore lavorava per la pagnotta giornaliera, comprava le telacce di scarto con imprimiture scelleratissime; e per tirare avanti il lavoro usava colori molto ogliosi e dipingeva bene alla prima. Chi acquista dei suoi quadri deve rassegnarsi a perderli in poco tempo...Gran peccato! Anche questo ramo del nostro albero pittorico si va seccando in Venezia, non ci sono più pittori vedutisti di buon nome...». Questa l'opinione purtroppo diffusa al suo tempo su Francesco Guardi, nelle parole, addirittura, di uno dei suoi committenti, Pietro Edwards, in una lettera del 1804 ad Antonio Canova. Per questo la grande mostra a lui dedicata nel terzo centenario della nascita, che si apre domani a Venezia al museo Correr (aperta sino al 6 gennaio 2013) e di cui ieri si è svolta la vernice, è, anche, un'occasione per dimostrare come Guardi abbia smentito nei secoli il giudizio dei suoi contemporanei e la sua pittura fatta di vibrazioni luminose e suggestioni atmosferiche, il suo segno incisivo e vivacissimo, quasi fosse un impressionista ante-litteram, regga - non solo per la "tenuta" dei suoi materiali -oggi il confronto con la modernità meglio di quello di un grandissimo vedutista classico, di cui visse nell'ombra, quale fu Canaletto, come ha sottolineato nella presentazione dell'esposizione, ieri, il direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia Gabriella Belli.
E dunque la mostra ideata da Filippo Pedrocco e Alberto Craievich ancora sotto la direzione di Giandomenico Romanelli, accompagnata da un bellissimo catalogo Skira, ha come inevitabile parametro di confronto la prima grande esposizione sui Guardi - Francesco con il fratello Antonio - curata da Pietro Zampetti nel 1965 a Palazzo Grassi, è anche un "test" per capire se Venezia può tornare a produrre grandi esposizioni di peso e di successo sulla propria tradizione artistica. Suddivisa in cinque sezioni _ dalle tele di figura degli inizi alle prime vedute, dai paesaggi e capricci, alla rappresentazione delle feste e delle cerimonie della Serenissima, fino ai quadri dell'estrema maturità in cui si stacca fulgida la sua grandezza - con oltre centoventi opere pittoriche e grafiche (sedici delle quali per la prima volte esposte in Italia grazie anche a importanti prestiti stranieri) la mostra punta innanzitutto a restituirci il "vero" Guardi, senza conflitti attributivi con i dipinti del meno dotato fratello che hanno segnato la sua storia critica, e a inquadrarlo nel suo tempo, pur con i problemi di datazione dei dipinti che derivano da conoscenze storiche assai scarse pervenuteci su questo artista. Che, nella sua evoluzione, ha proceduto per salti, più che per gradi - come sottolineava anche ieri Craievich - con autentiche rivoluzioni che portano a volte quasi a non riconoscere la mano dello stesso pittore da un dipinto all'altro, anche in virtù di una libertà espressiva che lo ha comunque sempre accompagnato, forse perché non condizionato dalla committenza patrizia, ricca e ingombrante, a cui dovette rifarsi il più celebrato Canaletto. Un'evoluzione che nell'ultima parte della sua vita - Guardi muore il primo gennaio 1793 nella sua casa di Cannaregio - conosce il suo livello più alto, con una libertà espressiva straordinaria, che lo porta anche a "deformare" a sua piacimento le prospettive e con il cielo e l'acqua che diventano a volte protagonisti delle tele in autentici capolavori come La regata sul canale della Giudecca, dove l'azzurro dei due elementi si fonde in un'unica, serena e guizzante materia pittorica nella veduta che si stende davanti ai nostro occhi, esaltata anche dalla luce delle finestre, autentiche, sul bacino di San Marco “ritrovate” e schermate con il nuovo allestimento voluto per la mostra.
O nel piccolo olio su tavola, Il rio dei Mendicanti, che chiude la mostra , un'elegia della Venezia minore, in struggente disfacimento che ci restituisce nella sua personalissima visione, lontano da qualsiasi oggettività pittorica. Ma i capolavori sono in ogni sezione della mostra, sin dalla prima, come ad esempio anche in un’opera di ispirazione sacra come Il miracolo del beato Gonzalo d’Amaranto, nella vibrante drammaticità delle figure immerse nell’acqua. La mostra è arricchita anche da una corposa parte grafica, che ha il suo fulcro negli schizzi provenienti dal Gabinetto dei disegni e delle stampe del Correr, restaurati per l’occasione, con il loro segno fulmineo e fantasmatico .
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