Freya Stark, in volo sulle ali della libertà

Non viene da credere che quella signora agée, semplice e sorridente, che passeggiava amabile per Asolo, fosse la mitica viaggiatrice inglese Freya Stark. Per crederlo ci sono i libri che ha scritto sui suoi viaggi, ci sono foto, taccuini, disegni ora raccolti (fino al 22 novembre) nella mostra “Vaghe stelle dell’Orsa. Il viaggio sentimentale di Freya Stark” in Sala della Ragione a Asolo, e ci sono delle signore che, per conoscenza e sincero attaccamento, fanno corona al mito. Prima fra tutte, minuta, discreta e pronta alla commozione, è Anna Modugno sua assistente sino alla morte che venne a far visita alla “grande dame” ormai centenaria nel 1993. La seconda, in ordine di apparizione sulla scena del mito, è l’eccellente curatrice Annamaria Orsini che per due anni si è dedicata a esaminare e catalogare le “cose” di Freya: abiti, documenti, lettere, ricami, foto, disegni. Le altre signore asolane sono una specie di comitato che ha collaborato con dedizione alla mostra e che la curatrice ha battezzato Freyadi. Questo è il clima morale, la propagazione virtuosa, fuori marketing, di un incantamento che diventa mission e riesce a rendere affascinante una mostra piccola e raffinata con le “cose” private di Freya, l’intemerata che attraversava deserti, scalava montagne, viaggiava a d’orso d’asino; si ammalava e veniva curata con impiastri locali, proprio in quei luoghi, Siria, Iraq e Iran, per noi teatro di quotidiane, immani tragedie. E pensare che nel suo celebre racconto di viaggio “La valle degli assassini” dichiara che il primo piacere del viaggio è che «così spesso e inaspettatamente si incontra il meglio della natura umana». Freya nasce bene, per nobiltà di sangue e intelletto, padre pittore e scultore, che si diletta con impegno nel frutteto e inventa la mela Stark, madre pittrice e concertista; coppia di viaggiatori che a un certo punto decide di stabilirsi a Asolo. Dunque data dall’infanzia il profondo rapporto con la città di Caterina Corsaro e di Eleonora Duse. Anche Freya aveva il suo barco-giardino dove accoglieva gli amici blasonati che arrivavano dall’Inghilterra; ma amava anche stupire, ostentare la sua elegante eccentricità che i viaggi e la magia del mondo arabo le consentivano: all’incoronazione di Elisabetta II indossò un caffetano di seta arancione con ricami d’oro e fodera blu. Uno schianto, una performance di finissimo snobismo: era il 1953. Freya partiva sempre da sola perché «in due si finisce sempre per chiacchierare», pronta alle sfide che ne mettevano a dura prova la resistenza e la stessa vita. Ogni tanto faceva tappa dai consoli inglesi e dai sultani locali. Da piccola lesse avidamente “Le mille e una notte” che le segnarono la via. Divorò tutto ciò che c’era sui viaggi e sui paesi d’Oriente, prese lezioni di alpinismo e di resistenza fisica. Imparò dieci dialetti arabi, oltre alle quattro lingue europee che parlava perfettamente. Poi partì per il Medio Oriente e si spinse sempre più in là. Negli anni che vennero, dopo i viaggi che tuttavia intraprese anche ottuagenaria, interpretò se stessa nell’adorata scenografia dei colli asolani.
L’incantevole “dame” fu per tutta la vita una donna autentica e sopra le righe: volitiva, curiosa, indipendente, coraggiosa. Scrisse libri che fecero scoprire luoghi sconosciuti e inaccessibili, disegnò carte geografiche e immortalò in efficaci impressioni sintetiche luoghi e persone. Freya è sepolta a Asolo, al Museo andranno i cimeli della sua vita pubblica e privata conservati amorevolmente da Anna Modugno. Andranno a affiancare quelli di Eleonora Duse: due miti, due modelli di libertà.
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