Gianfranco Folena e la sua grande scuola nemica del metodo

di Nicolò Menniti-Ippolito
PADOVA
Gli studi linguistici, ma anche quelli filologici e letterari, non sarebbero gli stessi in Italia se non ci fosse stato Gianfranco Folena. Non solo per il suo contributo diretto, anche e soprattutto perché Folena ha dato vita, a Padova, ad una scuola di linguisti e filologi che si è poi espansa in tutta Italia.
Gianfranco Folena, uno degli accademici che diede lustro all’Università di Padova, morì esattamente vent’anni fa, il 14 febbraio 1992. Ma la sua lezione , proprio per aver formato una “scuola” rimane ancor oggi viva. E non solo attraverso i suoi testi: «Folena non affascinava quando faceva lezione, ma era straordinario nel seguire le tesi e nei seminari, lì venivano fuori tutta la sua capacità e la sua passione per la didattica». Così lo ricorda Pier Vincenzo Mengaldo, che di Folena è stato, in ordine di tempo il primo allievo. «Arrivò a Padova quando aveva poco più di trent’anni ed io chiesi subito di fare la tesi con lui». Primo di una lunga serie di allievi, diventati a loro volta maestri. «Folena – continua Mengaldo - ha creato una scuola molto particolare perché i suoi allievi sono uno diverso dall’altro e tutti diversi da lui. Questo è il segno di una grande apertura mentale».
Tre generazioni di studiosi sono stati influenzati da Folena ed hanno occupato cattedre universitarie in tutta Italia, spaziando anche tra materie diverse. «Folena – dice Mengaldo - aveva appreso da un lato la lezione di universalismo culturale di Giorgio Pasquali, dall’altra la solidità ed estrema serietà di Migliorini. Questo lo aveva portato ad avere una grande varietà di interessi, senza nessun chiusura settoriale, ma anche un costante legame con la concretezza, senza nessuna passione per le astrattezze». E per questo Folena poteva aprirsi a tutte le novità, prendendone solo il meglio. «Aveva una grande passione per il dialogo - continua Mengaldo - e la sua creatura prediletta era il Circolo filologico-linguistico del mercoledì dove si discuteva con quelli che erano i maggiori studiosi al mondo. A Padova in quegli anni sono venuti Jacobsen, Greimas, Martinet, cosa oggi impensabile, ma Folena, prima di tutti noi, aveva anche capito i limiti della semiologia». Come del resto di tutti i metodi. «Sì – conferma Mengaldo - perché il suo era un approccio empirico, pragmatico, che si adattava di volta in volta alla materia studiata. Si potrebbe dire che era un ametodico e questo gli consentiva di recepire ogni tipo di contributo». L’empirismo di Folena, la grandissima curiosità, lo hanno portato a produrre una enorme quantità di studi, ma pochissimi volumi monografici. «La grandezza di Folena – dice Mengaldo - si è espressa soprattutto nei saggi. Si faceva provocare da moltissimi argomenti, studiava più cose contemporaneamente e la dimensione del saggio era quindi ideale per lui. Per esempio i saggi su Goldoni hanno cambiato completamente la ricezione dell’opera goldoniana».
E questo è in qualche modo sorprendente. Folena era toscano, eppure arrivato a Padova, divenne uno dei maggiori studiosi di letteratura veneta, facendola conoscere come fino ad allora non era avvenuto. «Aveva una autentica passione per la cultura veneta ed anche il dialetto. I suoi studi hanno attraversato tutta la letteratura veneta dal ’200 all’800 ed hanno contribuito in modo fondamentale a riportare l’attenzione degli studiosi su Ruzante, Goldoni, ma anche moltissimi autori minori».
E del resto il suo legame con Padova fu profondo. «Quando si aprì per lui la possibilità di tornare a Firenze o andare a Roma, Folena rifiutò – dice Mengaldo - perché gli piaceva Padova, voleva restare qui. Mi ricordo che gli piacevano molto i portici della città, lo affascinavano per loro differenza rispetto a quelli fiorentini».
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