Giorgione chi era? Figlio naturale del signor Gasparini

Zorzi da Castelfranco, autoritratto
Zorzi da Castelfranco, autoritratto
 
VENEZIA.
Sul suo conto poco si sa. Innanzitutto che il suo nome di battesimo fosse Giorgio, con le relative varianti venete «Zorzi» o «Zorzon» e che fosse nato a Castelfranco Veneto, tra le dolci colline trevigiane, erano informazioni già note, ma neppure gli storici più illustri che di lui si sono occupati, da Salvatore Settis a Lionello Puppi, erano riusciti ad andare al di là di ipotetiche seppur seducenti ricostruzioni.  Che fosse morto in giovane età, nell'autunno del 1510 durante una delle epidemie di peste che nel corso di quel secolo flagellarono Venezia, era stato ricostruito sulla base di una lettera di Isabella d'Este Gonzaga, che da Mantova il 25 ottobre di quell'anno incaricava il suo agente in laguna di cercare una «pictura de una nocte» per il suo studiolo, dando per certa la morte del pittore. Questo e poco altro era stato possibile accertare, a partire dai pochi documenti rinvenuti, sulla vita di uno dei più famosi ed inquieti geni pittorici del Rinascimento veneto, Giorgione. Non a caso il catalogo della mostra a lui dedicata per i 500 anni dalla morte ospita saggi dal titolo significativo, come «Tracce e scommesse per una biografia impossibile».  Oggi, grazie alla scoperta nell'Archivio di Stato di Venezia della storica Renata Segre, la biografia di Giorgione diventa «possibile»: un documento datato 14 marzo 1511 e redatto per conto di una magistratura veneziana lo identifica come figlio ed unico erede di Giovanni Gasparini da Castelfranco, «Mentre una delle ipotesi storiografiche - racconta Renata Segre - lo dava come figlio naturale e quindi senza padre e Giorgio Vasari lo indicava "di umilissima stirpe"». Il documento indica che era la vedova del padre di lui, Alessandra, a rivalersi sui beni dell'unico figlio da poco deceduto.  L'eredità del Giorgione, che il documento conferma essere morto di peste nell'isola del Lazzaretto nuovo («magistri Georgii pictoris retentis ad hospitale Nazareth Venetiis»), comunque, appare poco consistente. La lista comprende alcuni beni mobili, panche, letto e un «desco», «quatro camise», una veste femminile di raso, altri oggetti domestici e una stola foderata di pelliccia, il tutto per un valore di 89 ducati. Ben poca cosa se si pensa che allora un ritratto di Bellini costava 50 ducati e che lo stesso Giorgione chiedeva 130 ducati per aver affrescato la facciata del Fontego dei Tedeschi a Rialto. «Ma l'indicazione di quei pochi vestiti da uomo della lista potrebbero aiutarsi a riconoscere l'autoritratto del pittore in alcuni suoi dipinti» aggiunge l'esperta veneziana.  La scoperta di un documento inedito di questo rilievo - l'unico fino ad ora che ci fornisce particolari sulla vita del pittore veneto, «da sempre circondato da un alone di mistero tanto da aver alimentato il mito di un personaggio enigmatico e indecifrabile» scrive la storica Segre in un saggio che esce nel numero di giugno della rivista di storia dell'arte londinese «The Burlington Magazine» - non stupisce in un archivio importante come quello veneziano, che a poco meno di 200 anni dalla sua apertura al pubblico, ancora rappresenta un territorio di caccia e un punto obbligato di passaggio per studiosi delle più svariate discipline.  La continuità istituzionale della Serenissima che si estende per ben 700 anni e che la rende un caso anomalo nel panorama italiano, il suo impero economico che la incorona regina dei traffici marittimi per secoli, i suoi rapporti privilegiati prima con Bisanzio poi con gli ottomani e le più importanti città del Mediterraneo, la sua fama di capitale europea della cultura e dell'arte, assieme alla lungimiranza di chi l'ha governata e di chi ne ha custodito per secoli la memoria, cancellieri, segretari e notai, hanno permesso la produzione e la conservazione di più di 50 chilometri di documenti. Tutti raccolti nell'ex convento dei Frari, che ora ospita l'Archivio di Stato.  E tra queste carte Renata Segre, esperta di storia ebraica, ha individuato quasi per caso il documento su Giorgione. Setacciando in modo sistematico una serie archivistica poco frequentata, quella dei «giudici del proprio», antica magistratura che tra le sue competenze aveva quella di tutelare i diritti delle vedove in materie di restituzione delle doti, ha letto quella riga in cui si parla di «Giorgii de Castel Franco» associato alla qualifica di «pictor».

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