Il paese nato dal matrimonio tra Bevadoro e Campolongo

Teatro di uno dei saccheggi più feroci operati dai Lanzichenecchi tedeschi scatenati dalla Lega di Cambrai contro Venezia e la Terraferma rimasta fedele
SBRISSA-FOTOPIRAN-CAMPODORO-VILLA TRETTI BEVADORO
SBRISSA-FOTOPIRAN-CAMPODORO-VILLA TRETTI BEVADORO

Non c’è proprio da ricamarci sopra, anche se il nome autorizzerebbe a farlo; in questo avallato dallo stemma comunale che sotto la classica corona turrita indica un campo totalmente dorato, senza nessun disegno sopra. Il fatto è che sbaglierebbe di grosso, chi volesse associare al nome di Campodoro un’immagine agreste, quasi bucolica e da cartolina, dominata dai riflessi dorati del Sole che si riverberano sul verde della campagna, simboleggiata dai due ramoscelli che circondano lo stemma stesso.

Nel caso specifico, infatti, la spiegazione è molto più banale, e oltretutto non c’è neppure bisogno di scavare chissà quanto indietro nella storia per trovarla: basta attingere ai documenti dell’anno 1867, quello successivo all’annessione del Veneto al Regno d’Italia. Dalla Serenissima prima e dall’alternanza francesi – austriaci dopo, la neonata realtà che ha appena unificato lo Stivale eredita due minuscoli centri, uno dei quali si chiama Campolongo, l’altro Bevadoro. La cosa più semplice e di buon senso, viste le loro ridotte dimensioni, è con tutta evidenza quella di metterli insieme; e per battezzare la nuova realtà amministrativa promuovendola a Comune, i burocrati dell’epoca, che come tutti i loro antenati e successori non dispongono di una dotazione significativa di fantasia, sbrigativamente prendono metà nome dell’uno e metà dell’altro, per non scontentare nessuno: ecco fatto Campodoro, che in ogni caso suona molto meglio dell’altra possibile soluzione, Bevalongo; almeno evoca qualcosa, sia pure di virtuale.

Le radici, naturalmente, risalgono a un’epoca di gran lunga anteriore, anche se a quanto pare il paese non può vantare i trascorsi romani di tanti altri centri padovani. In questo caso, presumibilmente, si deve andare a ridosso del Duecento, quando risulta documentata l’esistenza di una facoltosa famiglia, i Campolongo, che come spesso accade all’epoca prendono il nome da quello del luogo in cui vivono, e nel quale ricoprono una posizione influente.

E in ogni caso quella denominazione di “Campo” sta a indicare l’esistenza di una zona coltivabile relativamente ampia: fatto rilevante, in un’epoca in cui la grande maggioranza del territorio è occupata da boschi, paludi, stagni, sterpaglie.

Il guaio è che questa è zona di per sé appetibile, se non altro perché consente di sfamarsi e di fare un po’ di commercio con i vicini: si trova infatti in un corridoio di confine che separa Padova da Vicenza, vale a dire due protagoniste di uno dei derby più accesi e duraturi del tradizionale campanilismo veneto. Per giunta, le tifoserie dell’epoca sono molto più agguerrite di quelle dell’odierno pallone: per cui, dal Duecento in avanti, cominciando con quel piantagrane di Ezzelino che riesce a mettersi in urta con mezzo Veneto, finiscono per incontrarsi e soprattutto scontrarsi; e a pagarne le spese sono sempre e comunque i poveri abitanti del luogo.

Il capitolo più disastroso viene però scritto da una rivalità di portata molto più ampia che una lite tra confinanti: succede nel Cinquecento, quando in zona comandano i veneziani. La Serenissima è all’apice della sua potenza, politica, militare e soprattutto economica, per cui ha finito inevitabilmente per pestare i piedi a tanti. A mettere assieme gli scontenti ci vuole tuttavia un miracolo, visti i differenti interessi che contraddistinguono le grandi potenze dell’epoca; e chi più adatto del Papa a compierlo? Quello in carica all’epoca, oltretutto, ha le caratteristiche di un autentico leader: Giulio II, della potente famiglia dei della Rovere, con un’autorevole quanto rapida azione diplomatica realizza un’ampia alleanza il cui patto viene sottoscritto a Cambrai, una cittadina belga: tutti i principali Paesi europei contribuiscono con un loro contingente, oltre che con cospicui finanziamenti, e a capo viene posto l’imperatore d’Austria, Massimiliano I. Le ostilità partono nel 1509, accompagnate da un intervento del Papa che per rinforzare le cose decide di scomunicare Venezia; ma mentre i patrizi della terraferma veneta fanno il tifo per gli imperiali, il popolino malgrado gli strali pontifici mantiene la fedeltà a San Marco e ai suoi rappresentanti in terra. Già a giugno arrivano nel Padovano i lanzichenecchi (dal tedesco “landsknecht”, servo del paese), un corpo di soldati in massima parte luterani, istituito da Massimiliano nel 1487, il cui nome diventerà sinonimo di distruzione (e lo sperimenterà sulla propria pelle Roma con il sacco del 1527 ordinato da Carlo V). La zona dell’attuale Campodoro assaggia di persona quanto fondata sia la triste fama che li accompagna: un saccheggio così tremendo, che le cronache dell’epoca lo riportano espressamente.

Ma la Serenissima supera indenne anche questa mini-guerra mondiale nei suoi confronti, e un po’ alla volta i possedimenti di terraferma riprendono quota. Al recupero della futura Campodoro concorrono famiglie veneziane come gli Widmann e i Rezzonico, delle cui ville rimangono tracce a Bevadoro. E malgrado le guerre e le distruzioni dei secoli, dal Duecento è arrivato fino a noi senza particolari danni quello che si può considerare una sorta di logo del paese: la Torre Rossa, probabilmente eretta a suo tempo proprio in quanto inserita in una zona di confine.

La realtà di fondo del paese è da sempre improntata all’agricoltura, peraltro con incroci interessanti con la prima industrializzazione: lo testimonia un grande edificio oggi in disuso, che un tempo ospitava un essiccatoio per il tabacco, dove venivano lavorate le piante coltivate in zona. Un po’ alla volta, la relativa vicinanza con Padova ha favorito il sorgere di un tessuto di piccola impresa che ha contribuito a elevare il tenore di vita della popolazione. La quale rimane in ogni caso attestata poco sopra la soglia dei duemila abitanti: una delle tante microrealtà che concorrono a garantire la tenuta del tessuto veneto, sapendo bene per ancestrale esperienza quanto sia duro ma anche indispensabile pedalare in salita, per arrivare al traguardo.

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