Il Portello, centro commerciale ante-litteram ma con la solidarietà dei poveri

In una Padova biancofiore la "Nave" era zona rossa, ma per l'Immacolata la statua della Madonna veniva portata a spalla e la via veniva abbellita mettendo i copriletti alle finestre
PADOVA. Bandiera rossa la trionferà. In una Padova biancofiore democristiano a perdita d’occhio, il Portello faceva rima con falce e martello: nei seggi del rione, il Pci era regolarmente il primo partito, con roccaforte nella sezione aperta fin dal ’45 nel cuore della Nave.
 
Anche chi durante gli anni Cinquanta aveva traslocato in altre zone della città, manteneva lì l’iscrizione; e non perdeva un colpo, quando c’era da mobilitarsi per andare ad attaccare manifesti, a volantinare o a far propaganda.
 
E tuttavia, nel rione si respirava una religiosità popolare e popolana, un po’ alla Don Camillo e Peppone: la si poteva toccare con mano in particolare ogni 8 dicembre, festa dell’Immacolata, quando per le strade del Portello al pomeriggio si snodava un’affollatissima processione in cui la statua della Madonna veniva portata a spalla dai “porteati” vestiti con corsetti dorati, pantaloni alla zuava e berretti neri; e le finestre delle case, in mancanza di meglio, venivano addobbate con copriletti.
 
Come spesso accade, povertà e solidarietà andavano di pari passo. Le case erano piccole e fatiscenti, prive di servizi igienici: c’era un gabinetto in comune per ogni scala nel cortile retrostante l’edificio.
 
E assieme al dispiacere per dover lasciare il luogo delle radici, fu una festa per i porteati quando a metà anni Sessanta si decise di ristrutturare la Nave spostando gli abitanti altrove: non pareva vero di poter avere un appartamento col bagno, il riscaldamento, l’acqua calda corrente.
 
Si litigava e ci si sfotteva spesso, è vero: tra chi tifava per Coppi e chi per Bartali, tra comunisti e democristiani, tra vincitori e sconfitti a briscola. Ma di fondo c’era un legame robusto: se una mamma doveva andare in ospedale, un’altra mamma si prendeva cura dei figli; se una famiglia era in difficoltà economiche, c’era chi si faceva carico di fare la spesa e portargliela.
 
 
Corta e stretta era via Portello, con il fondo in ciotolato e la carreggiata centrale a schiena d’asino. Ma nel suo piccolo, un autentico centro commerciale con tanti negozi per ogni esigenza: un macellaio, un fruttivendolo, due latterie, due casolini con alimentari assortiti, un panificio, un ciabattino, un negozio per scarpe, uno di abbigliamento, due mercerie, un impagliatore, un materassaio, una rivendita legna e carbone, un deposito di materiale ferroso, perfino un negozio di oreficeria dove si andava a comprare i regali per battesimi, prime comunioni, cresime, fidanzamenti e grandi occasioni.
 
La concentrazione di punti vendita in un’area povera aveva una spiegazione ineccepibile dal punto di vista della teoria economica: la possibilità di ricorrere al cosiddetto libretto. Si trattava di un quaderno a quadretti, di cui ogni negoziante era dotato, per scrivere durante i giorni del mese l’importo degli acquisti fatti dalla gente del posto (“segni”).
 
A fine mese si tiravano le somme; e dopo il 27, quando venivano pagati gli stipendi (giorno dedicato dalla tradizione popolare a San Paganino), i porteati andavano a saldare i debiti. Ogni famiglia, in media, aveva quattro o cinque libretti: per il vestiario, per la carne, per gli alimentari, per le scarpe, e uno impiegato molto più di rado con l’orefice, il mitico Panizzolo.
 
Nel suo piccolo, il Portello era una realtà ispirata a un sano pluralismo ante-litteram, in cui sacro e profano convivevano senza pestarsi i piedi. Il che valeva pure nel tempo libero: il quartiere era dotato di ben due cinema, dedicati a target diversi.
 
Il principale era quello laico, il Venezia: era finalizzato a un pubblico adulto, che poteva permettersi di sfidare impunemente Santa Madre Chiesa andando a vedere i film da essa classificati “per adulti con riserva”; se non addirittura quelli bollati con la sentenza di “escluso”.
 
Si faceva peccato, ma ne valeva la pena; tanto più che a fronte delle odierne trasmissioni tv, quella era roba per educande.
 
Ma la gioventù doveva essere preservata: ecco allora che la parrocchia aveva allestito il cinema Italia, dove le proiezioni erano rigorosamente riservate ai film “per tutti”.
 
In questa singolare piccola cittadella del consumo non poteva mancare l’infrastrutturazione per gola e pancia. Di osterie ce n’erano addirittura quattro, la più gettonata delle quali era quella da Ciro.
 
Un’altra si distingueva per un suo target specifico, quello degli “scoassini”, oggi conosciuti col più pomposo ma arido nome di “operatori ecologici”.
 
Tra le 7 e le 8 del mattino, prendevano fiato durante il loro giro di pulizie per recarvisi a consumare una sorta di proletarissimo brunch antelucano a base di “supa de tripe”, “minestra de fasoi”, “carne in tocio”, baccalà, il tutto supportato da generose libagioni a base di vin rosso.
 
Gente tosta, dalla quale il colesterolo si teneva prudentemente alla larga. E’ forse in questo contesto che è venuta nascendo e consolidandosi nel tempo l’epopea proletaria di Pace e Scheo: soprannomi di due leggendari personaggi divenuti protagonisti di una formidabile saga di barzellette tramandata per via orale da una generazione all’altra.
 
La più epica delle quali risulta tuttora quella dell’avventura di Scheo con una potenziale fiamma, dal memorabile incipit: “Signorina, xèe sue ste ochette?”. Il tragico finale suggerisce il ricorso a un pietoso “omissis”. Cali il sipario.
(8 – fine)
 
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