In Gourmetteria tra attesa, ordini, delivery. «Il locale aperto, un messaggio di speranza per Padova»

il racconto
L’orchestra non suona più. Quella sinfonia generata dall’urtarsi di stoviglie e dallo strisciare di sedie a ritmo di festa ha da tempo lasciato spazio a un sottofondo di musica jazz che ora suona per locali vuoti che riecheggiano di attesa. Nei ristoranti della città ogni sera è uguale e diversa al tempo stesso: immutata la speranza che sia vicina la svolta, ancora troppe le variabili da fronteggiare.
Le luci soffuse si accendono in Gourmetteria, in via Zabarella, mentre tutt’attorno la città si spegne. La serata è piovosa, «non è un buon segno», dice Simone Ferraro, responsabile del ristorante «abbiamo imparato che anche il meteo incide sugli ordini, la gente è a casa e fa da mangiare».
Nella cucina a vista lo chef Malvin passa lo straccio su superfici già linde in un movimento a metà tra lo scaramantico e il passatempo. Un anno fa erano in venti a lavorare, a turno, nel locale di via Zabarella, una dozzina quelli fissi tra sala e cucina. Poi il lockdown, le aperture a singhiozzo e, infine, la zona arancione.
E sono rimasti in tre, compreso il capo, Daniele Bovolato che otto anni fa ha aperto il locale «pensando all’aia e agli orti delle nostre nonne che facevano cucina a chilometro zero senza saperlo: volevo recuperare per i miei clienti la sensazione di uscire a cena e ritrovarsi a casa» racconta aspettando che arrivi qualche ordine.

Un’attesa che dilata il tempo e si conclude alle 19.10 quando un trillo prolungato scuote tutti. Per questa sera il ghiaccio è rotto: si comincia.
Simone corre alla cassa dove arrivano le ordinazioni via Mymenù «scelta di delivery fatta per premiare una realtà padovana» spiegano «ma dovremo allargare l’offerta». Sul bancone, l’ordinazione scivola fuori da una sorta di bancomat.
Verrà consegnata un’ora più tardi come richiesto dal cliente: polpo, tartare di manzo, verdure. «Dati i tempi non facciamo slittare nulla, preferiamo andare in affanno, se necessario» dicono.
Improvvisamente la cucina prende vita e si profuma di pranzo domenicale. Malvin si immerge tra le pentole arrivando a fischiettare per alcuni secondi, in uno scampolo di normalità, fino a quando c’è da impiattare una tartare in una vaschetta di plastica: nuove sfide.
«Facciamo per il 99% cucina espressa e capita che il cibo non venga utilizzato» racconta Daniele «compriamo i contenitori più costosi, magari cercando che siano anche ecocompatibili e facciamo di tutto per garantire che sulle tavole arrivi un prodotto di qualità, ben fatto». Si vive alla giornata, sul filo del magazzino «i prodotti vengono cucinati a basse temperature e conservati sottovuoto per conciliare qualità e durata» rivela.
In via Zabarella, come in altre centinaia di realtà della provincia resistono aggrappati al sogno, finché c’è fiato, che per un locale, spiega Daniele è «la liquidità».
Alle 20.45 ecco un altro ordine: ogni volta che il sistema trilla, annunciando una richiesta, Simone “salta” come colpito da una scossa. L’ultimo viene preso alle 22.30, alle 23 si chiude la cucina. I conti si fanno solo allora, difficile fare medie: «Ci sono sere che arrivano dieci ordini piccoli» dice il direttore di una sala ormai virtuale «altre in cui ne ricevi tre più grossi e fai lo stesso fatturato. Altre ancora, e capita, che non ne arriva nemmeno uno. Ogni giorno è una storia a sé».

Va meglio nel weekend. Tante sere, nel silenzio degli ordini che stentano ad arrivare, Daniele e Simone ragionano sul futuro, su come migliorare il servizio, cambiare il menù e su iniziative da adottare appena sarà passata la buriana: «Ci tiene viva la speranza» assicurano. «Il dramma è essere costretti a vivere alla giornata» racconta il titolare «appesi ai social per interpretare Dpcm che arrivano a sera, senza che in un anno mai nessuno si sia disturbato a mandarci una pec. E con questi pensieri si va a letto e si finisce per non dormire pensando ai collaboratori che hanno dei figli a casa».
Come Simone che per reggere l’urto del Covid ha dovuto trovare un piano B «faccio tre lavori, gli altri due sono più umili, ma non mi preoccupa abbassare la testa, ho un bambino piccolo da crescere». Gli ordini riprendono a rimbalzare senza fretta dalla cassa alla cucina e sulla testa di Malvin si crea una piccola tenda di “comande”: «All’inizio del lockdown la gente ordinava tanti hamburger, ora chiedono preparazioni più lente e complesse che non sanno o che non vogliono fare a casa, come l’oca, il polpo o il bollito veneto» dice mentre spadella. «Prima del Covid facevamo sette giorni su sette, pranzo e cena e abbiamo deciso di continuare così» dice Daniele sbirciando con un occhio il nuovo rito del confezionamento «i ristori finora hanno coperto il 2-3% del fatturato, mi converrebbe tenere chiuso, ma ho voluto dare un messaggio di speranza ai clienti, che ci siamo adesso e che ci saremo dopo, anche se quando va bene copro giusto le spese fisse».
L’ondata che temono di più i ristoratori è quella dei costi che «arrivano in blocco», in un mondo in cui ormai quasi nessuno fa più credito «sono onde sempre più alte, fino a quando arriva lo tsunami e ti sommerge definitivamente».
Poi improvvisamente esce il sole, l’ultima volta il 7 e 8 gennaio, con il Veneto in fascia gialla non è stato pienone ma ci sono state diverse prenotazioni «per fortuna la gente ha voglia di uscire».
Scavallate le 21, il bilancio è di un take away e sei delivery. Il rider fradicio di pioggia ritira l’ennesima ordinazione, salendo in motorino gli scappa un’imprecazione. Tornerà il sole, ma adesso è ancora buio per tutti. —
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova