«Io, chirurga oncologica divisa tra la famiglia e la sala operatoria alle ragazze dico: osate»

l’intervista
Se è vero che solo il 30 per cento circa delle studentesse sceglie di studiare discipline scientifico-tecnologiche - le cosiddette Stem - è vero anche che qualche segnale di cambiamento si intravvede. Per esempio nell’ambito della Medicina, le donne con il bisturi - chirurghe - stanno superando i colleghi maschi, almeno per quanto attiene le iscrizioni nelle scuole di specialità. Il sorpasso nella professione è ancora lungi dall’essere raggiunto. Dei 7.700 medici iscritti all’Ordine padovano, 3.260 sono donne e, nell’Usl 6 Euganea, 478 su 967 dirigenti medici sono donne. Il gap ancora c’è, specie nelle posizioni apicali. Anche qui, forse, sarà solo questione di tempo perché venga superato. Gaya Spolverato, 36 anni, è una chirurga oncologica che lavora nell’Azienda ospedaliera universitaria di Padova dove solo il 15 per cento dei chirurghi è donna. Ma è anche moglie e mamma di un bimbo di 11 mesi. E, non a caso, presidentessa dell’associazione Wis, Women in Surgery. Ieri è intervenuta al convegno promosso dal Bo in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella Scienza.
Come mai la scelta di diventare chirurgo?
«Premetto che non provengo da una famiglia di medici e che avendo avuto la possibilità di andare all’università, ho dedicato tantissima passione allo studio prima e alla professione poi. Potrei definire la mia vita piuttosto work oriented, ma ho anche un marito e un figlio, non c’è solo il lavoro».
Ha mai avuto dubbi sulla scelta di intraprendere questa carriera?
«Al primo anno di Medicina un professore un giorno chiese agli studenti chi volesse diventare chirurgo. Io fui la prima ad alzare la mano e lui: “Chi altri a parte lei che è una femmina?”. Non proprio un’iniezione di fiducia ma in me l’idea è rimasta fissa».
Mai un ripensamento durante il percorso di formazione?
«Mi sono appassionata anche alle specialità mediche, ma alla fine la chirurgia ha prevalso. Ho provato a cercare dell’altro perché venivo sconsigliata a seguire la mia passione per la chirurgia, poiché in quanto donna avrei incontrato difficoltà a conciliare il lavoro con la vita familiare. Poi il mio stesso mentore mi disse che se era con il bisturi che volevo salvare la vita delle persone, quello dovevo fare».
Come è avvenuta la sua formazione in un campo specialistico come la chirurgia oncologica?
«Ho studiato Medicina a Padova, poi, da specializzanda dell’Università di Verona ho trascorso due anni alla Johns Hopkins University negli Stati Uniti dove sono tornata, una volta conseguita la specializzazione in Italia, per la specializzazione in chirurgia oncologica allo Sloan Kettering Cancer Center di New York».
All’estero ha riscontrato la stessa diffidenza verso la donna chirurgo?
«Esistono gli stessi problemi, anche se negli States stanno spingendo molto su campagne di sensibilizzazione per superare il gender gap. Ci sono diverse associazioni di donne che puntano il dito sul gap ancora molto evidente nei ruoli di leadership ma anche sul piano salariale».
Anche da noi il numero di donne medico e chirurghe, sta aumentando.
«Questo è vero e vale anche per specialità tradizionalmente più ostiche per le donne, come ortopedia o urologia. Il problema vero non è tanto la formazione, quanto poi il mondo del lavoro. La maternità, per esempio, viene gestita in maniera da risultare un ostacolo alla carriera: in Italia vieni allontanato dalla sala operatorio dal primo giorno di gravidanza fino a tutto il periodo di maternità, quindi più di un anno. Negli Stati Uniti puoi operare fino al giorno prima del parto e la maternità si riduce a un paio di settimane. È certamente un eccesso al contrario».
Ritiene che il divario di genere possa essere superato?
«Sono convinta che le cose stiano cambiando e in futuro anche le aziende cambieranno atteggiamento. Qualunque lavoro svolto con impegno e competenza non può portare con sè la differenza di genere. Poi la vera sfida sarà superare il gap nelle posizioni apicali». —
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