La follia del folletto diventa visionaria di fronte alla morte

«Come un sasso nella corrente» non è un bilancio di vita piuttosto uno specchio, impietoso e ultimo

di Adriana Lotto

Si guarda dentro e si vede, Mauro Corona nel suo ultimo romanzo, Come un sasso nella corrente (Mondadori) e si dichiara, trascorsi sessant'anni di vita, per ciò che è stato e che è, per ciò che avrebbe voluto e non è stato e non può più essere. Lo fa con un linguaggio sobrio, netto, potente pur nel tono elegiaco, intimo e malinconico, dell'indagine interiore. Ad accompagnarlo, in questo andare e venire tra passato e presente, fino alla “catastrofe” finale, è una donna, quella che anni addietro raccoglieva le sue confessioni, perché ha il dono di “saper ascoltare” e siccome ascoltare è una dote dell'animo, ecco che riesce a farlo anche a distanza, di spazio e di tempo. Due esistenze parallele, altrettanto solitarie e inquiete, nonostante la corrente della vita ne abbia smussato gli spigoli più vivi, tenute insieme da una sorta di complicità, di legame profondo, che è sì amore impossibile, ma perché sempre in potenza e perciò mai compiuto. Un amore che si alimenta di attese più che di incontri, e di ricordi più che di speranze, tranne quella che le cose tornano; ed è perciò che dura, dura quanto durano quelle esistenze, e forse di più.

Parallelismo e circolarità, dell'esistenza e tra le esistenze, sono dunque l'ordito e la trama di questo romanzo, evidenti altresì nella fantasia del bambino che anima i mestoli di legno con occhi e bocca, perché il gioco non solo il lavoro gli appartenga, che fiuta il buono come rarità e sa riconoscerlo ma non assaporarlo perché non è per lui, e dell'adulto che calca il palcoscenico del successo, e ancora del vecchio che scolpendo alberi dà vita a uomini e donne e ne popola il bosco. Insomma, Corona si è sempre creato una vita parallela, per sfuggire, dapprima, a quella dura e infelice dell'infanzia e dell'adolescenza, poi al ricordo devastante di essa. Alla violenza del padre, all'abbandono della madre, genitori senza figli, chiusi nel cerchio infernale di una vita umiliata, che solo nel pianto, anche se tardo, si riscattano, all'avarizia di gesti d'affetto dei nonni, alla sofferenza gratuita, ammesso che ve ne sia qualcuna di giustificabile, ma per i bambini in ogni caso non c'è, all'iniziazione cinica al sesso, al Vajont, allo sradicamento degli anni successivi, alla prigionia del collegio salesiano a Pordenone e ancora al trauma del ritorno e alla morte del fratello minore, non si sfugge, semmai ci si affranca dalla miseria, da una vita di sfinimento nella cava di marmo, grazie alle imprese alpinistiche, alla scultura, alla scrittura. Tutti mezzi di sopravvivenza. Tentativi di impadronirsi di quel difficile “mestiere di vivere” e renderlo meno duro. Distrazioni. Ma non basta. «Si era tolto dal pantano – si legge – ma non dal suo ricordo».

La memoria non muore, si assopisce forse, ma poi torna e non dà pace, di più: alla lunga toglie senso al nostro agire. Ecco allora che orgoglio e ambizione, desiderio e conquista di una vita diversa risultano vanità, illusioni, giochi della mente. Perchè rampicare è sfuggire al basso per ritornarvi, scolpire è raffigurare il dolore, scrivere è ricordare e rinnovarlo quel dolore. E allora subentra la sconfitta e la stanchezza per una battaglia che si riconosce persa in partenza. E tutto appare insulso e orribile, le statue come i libri. E perchè al dolore non si aggiunga dolore e il ricordo non torni a scavare anime da sempre perse nella “malinchetudine” (“fusione temporale di malinconia e solitidine”), unico antidoto è la follia, quella lucida che decide per la morte. La follia, come assenza di ragione e quindi di memoria, è la sola condizione per la quale il peso della vita si fa sostenibile e un suo sereno esercizio possibile. L'ultima parte del romanzo dice dello sforzo di conquista di un vivere sopportabile, dopo che si è «vissuto di tutto e tutto intensamente», e del suo precipitare ineluttabile là da dove siamo venuti e dove ci ritroveremo, nella «Cuna dei morti che piangono», nel grembo della terra. È un ritorno alla natura e al suo silenzio, alla vita solitaria di un tempo, mediata dal vissuto, un ritrovare salutare l'essenza delle cose dopo l'ubriacatura del successo, la temporanea cecità prodotta dall'effimero, ed è, l'ultima parte del romanzo, potentemente visionaria, di quella visionarietà di cui Corona ha dato grande prova già in altre storie e che qui riserva a se stesso. Un presagio che si compirà a 76 anni. Nel frattempo c'è ancora da raccontare: la storia delle tre mummie, ad esempio .

Qualche giorno fa Antonio Gnoli si è chiesto sulle pagine della “Repubblica” che cosa abbia spinto l'autore «a un bilancio così impietoso su se stesso».

«Perchè dopo una certa età si torna onesti», gli risponde dal libro Mauro Corona, ci si riconosce per quello che si è e che si è così per come si è stati e si vorrebbe che anche gli altri lo facessero, soprattutto gli infelici, cui il romanzo è dedicato, perchè davvero, come scrive Márai, ci sono «certi uomini ai quali è impossibile dare la felicità». Ma è anche per non essere frainteso che la recita, certo più nobile dell'autocommiserazione, deve finire, per non restarne sopraffatto, per far capire che nel fondo quell'uomo timido è un poco migliore di come è apparso. È così che Corona l'ha fatta finire prima quella recita, prima del «pericolo estremo», quando «di fronte alla morte, l'individuo rivela chi è, lo grida forte a se stesso».

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