La “Piccola Patria” è il Nordest disincantato

Un lungo e sentito applauso ha accompagnato i titoli di coda di “Piccola Patria”, opera prima di Alessandro Rossetto. Termina così la prima fase della vita di questo splendido film. Dopo una lunga preparazione, dopo le riprese, adesso il successo ad uno dei più importanti festival internazionali; ora si attende il pubblico in sala e la prima notizia, che sicuramente farà discutere, riguarda proprio il fatto che di tutti i film in competizione italiani “Piccola Patria” non ha ancora una sua distribuzione.
Speriamo che questo successo e il carico emotivo palpabile nella Sala Grande riescano a portare luce su questa preziosa storia.
Il Nordest ne esce fuori sicuramente ferito, ma la connotazione locale, pur essendo evidente, in qualche modo non è così centrale. «Sarebbero potute accadere in una qualsiasi provincia del pianeta, ma ho cercato nel Nordest italiano le storie che compongono il racconto di Piccola Patria», spiega Rossetto, «Luisa e Renata, le mie protagoniste vogliono andare via da una cultura del lavoro che è solo cercare di fare soldi spesso non riuscendoci».
E sono proprio Luisa e Renata interpretate dalle sorprendenti Maria Roveran e Roberta da Soller, che con i loro corpi e la loro voce si portano sulle spalle parte del successo: «Abbiamo lavorato sulle situazioni del film, senza avere una sceneggiatura di ferro. Per fare questo Alessandro ci ha letteralmente segregato in un hotel per tre mesi. Abbiamo esplorato Luisa e Renata e anche noi stesse, siamo quindi arrivati alle riprese stando su un limite particolare tra quello che siamo noi veramente e i nostri personaggi», spiega Roberta Da Soller, «nel mio caso poi Alessandro mi ha suggerito di pensare al personaggio di Lisbeth Salander del bestseller “Uomini che odiano le donne” e devo dire che quello è rimasto il filo rosso che mi ha guidato».
Anche Maria Roveran è stata positivamente colpita dal modo di dirigere di Rossetto: «Il fatto di lavorare su una sceneggiatura non blindata per alcuni attori potrebbe essere una croce, nel mio caso invece è stata una grande opportunità di libertà. In questo senso mi ha colpito l'attenzione che il regista ci ha chiesto di prestare alla dimensione dell'ascolto. L'idea era quella di entrare in dialogo con l'ambiente, il corpo doveva stare in ascolto rispetto al luogo».
In questo senso il personaggio interpretato dalla Roveran è quello che si mette letteralmente più a nudo: «vedermi anche nuda in queste forme di dialogo corporeo forte e brutale non è stato semplice. Ma mi ha permesso di aggiungere una dimensione in più al mio lavoro di attrice».
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova