La potenza di Arturo Martini nelle creature di terracotta

A Bologna e Faenza l’opera del più grande scultore del Novecento in un percorso irripetibile per emozione, ricchezza e competenza
Di Elio Armano

Nel “suo” Veneto Arturo Martini (1889-1947) non è certo nemo propheta in patria, com’è dimostrato in modo imperituro dai marmi del Palinuro e del Tito Livio collocati dall’Università di Padova rispettivamente al Bo e al Liviano o da quanto è visibile al museo civico di Treviso, sua città natale.

Purtuttavia non si può celare un certo rammarico misto ad un’onesta invidia davanti alla più che opportuna e strepitosa mostra bolognese di Palazzo Fava a cura, e non a caso, di Nico Stringa, veneto come Martini e sicuramente oggi l’unico studioso in grado di interpretare e far conoscere il più grande, in assoluto, degli scultori del Novecento.

Vedere dal vivo le grandi “creature” in terracotta, è origine di emozioni imperdibili, anche perché nel futuro sarà un’impresa impossibile toccare con gli occhi tanti veri miracoli della statuaria adunati insieme in un’unica mostra. Altro che “scultura lingua morta”, come Martini scriveva nell’ultima parte della sua breve vita! Lui, l’insegnante epurato dall’Accademia di Venezia per la colpa di avere lavorato nei tempi dell’Italia fascista. Nonostante il regime e le sue chiusure autarchiche e provincialistiche, aveva invece scolpito pagine di modernità internazionali, innervando il suo lavoro dentro una sempre viva tradizione che, attingendo dagli etruschi è passata attraverso Donatello, Michelangelo fino a Canova , per aprire poi la strada successiva a Viani, a Manzù e a Marino Marini, quando in Europa persino il Moore doveva ricorrere prefessoralmente al primitivismo “negro” e a Picasso. Nelle sale bolognesi vivono e tutto riempiono statue di terra austere e auliche e, nel contempo, pervase da una irripetibile naturalità che ne fanno dei classici. Figure prive di retorica, nude davanti al mondo e, modellate vuote con una tecnica che è stata solo etrusca, “creature” che paiono abolire il peso e insieme darne il senso in forme che diventano magie sospese, fragilissime e insieme pervase da una forza aspra, resa scorrevole dal segno del pollice, l’utensile fondamentale di chi trasforma la terra vile in un “sogno della terracotta”, come, appunto, felicemente si chiama la mostra.

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