La sentenza a Padova: spiata sotto la scrivania, la foto non è reato. Prosciolto l’informatico

Prosciolto l’imputato, Giuliano Casellati, 41enne di Albignasego, esponente di una nota famiglia padovana, all’epoca dei fatti il tecnico informatico in un’azienda padovana che si divertiva a fotografare sotto la scrivania le gambe di una collega

PADOVA. Non c’è denuncia. E così, con la sentenza pronunciata dal giudice onorario padovano Stefano Canestrari, il processo finisce in “nulla”: non doversi procedere per difetto di querela.

Poche parole per chiudere tutto e mandare a casa prosciolto l’imputato, Giuliano Casellati, 41enne di Albignasego, esponente di una nota famiglia padovana, all’epoca dei fatti il tecnico informatico in un’azienda padovana che si divertiva a fotografare sotto la scrivania le gambe di una collega. E pure la parte civile, l’impiegata oggi 56enne suo malgrado spiata sotto le gonne, visibilmente provata e disgustata dall’esito processuale.

L’accusa contestata? Interferenze illecite nella vita privata altrui: un reato perseguibile in seguito a querela, ovvero la giustizia può attivarsi solo se la vittima (o chi si ritiene tale) presenta una denuncia. In questo caso la signora non aveva firmato una denuncia per la foto finita sotto accusa, l’immagine delle sue gambe scattate da sotto il tavolo. E il motivo è semplice: quella foto è diventata oggetto del processo nell’ultima udienza, a quattro anni dall’accaduto, perché il pm onorario Lorenzo Sparapan ha modificato il capo d’imputazione in aula lo scorso luglio. Di quella foto, infatti, la signora non aveva mai saputo nulla, nemmeno quando era stata scattata.

Un passo indietro. Il 28 agosto 2014 l’impiegata, che lavora nel call center di un’azienda in zona industriale, chiama i carabinieri quando si accorge che il tecnico, seduto davanti a lei, sta spiandola con lo stesso stratagemma usato in altre occasioni, una telecamera digitale legata alla caviglia puntata in direzione delle sue gonne. Nel dicembre 2013 lo aveva già smascherato: si era insospettita perché spesso lui si sedeva di fronte con le braccia basse. Così aveva scoperto che l’uomo si era fissato alla caviglia una piccola telecamera. Il video era stato mostrato ai vertici aziendali che l’avevano rassicurata: non sarebbe più accaduto. E il tecnico avrebbe potuto accedere al sua sezione di lavoro solo su chiamata.

Otto mesi più tardi decide di non stare più zitta. Tuttavia quando i carabinieri arrivano in ditta quel giorno di agosto, Casellati è già chiuso in bagno. A quel punto gli viene intimato di uscire ma tanto il cellulare quanto la telecamera risultano “puliti”.

Scatta la querela della signora per il comportamento del 28 agosto. E Casellati finisce sotto inchiesta, mentre da una perquisizione nella sua abitazione salta fuori un’immagine “rubata”, risalente a un giorno (non identificato) in cui la vittima non si era resa conto di essere spiata. Vittima che si era limitata a presentare la querela per l’episodio di agosto a lei noto, convinta che essere fotografata sotto la scrivania fosse un comportamento penalmente punibile. Il processo inizia quasi un anno fa. Nell’ultima udienza di luglio il pm Sparapan cambia la contestazione: l’interferenza illecita nella vita altrui non è il comportamento del 28 agosto 2014 (cioè il fatto di spiare sotto le gonne di una collega con una telecamera nascosta) ma è quello scatto rubato, sequestrato durante la perquisizione. Scatto risalente a chissà quando. Risultato: il pm chiede il non luogo a procedere perché manca la querela per quella foto, come ribadito dal difensore dell’imputato. Quest’ultimo, per quanto riguarda il merito del caso, ha fatto notare che si tratta di una foto scattata da un collega, presente nell’ufficio di diritto. Una foto che immortala un’immagine osservabile da tutti, le gambe della lavoratrice. In più la scrivania risultava aperta: non si tratterebbe di un luogo privato. Una chiave di lettura accolta dal giudice. Tra 90 giorni le motivazioni.

Morale: in ufficio meglio indossare i pantaloni. —


 

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