La sinta e il sindaco nella foto un riscatto che inizia a scuola

Bitonci replica alla provocazione della giostraia su Facebook «Non siete diversi, spero che altri abbiano un’opportunità»
Di Cristiano Cadoni

Lei è una diciassettenne di etnia sinti, famiglia di giostrai. Tifa Juventus, ascolta Fabri Fibra e Mengoni, ha più di duecento amici su Facebook, la sera va a fare un giro in centro e poi torna nel campo nomadi dove vive con la famiglia. Lui è il sindaco di Padova, ha vinto le elezioni promettendo sicurezza e lotta agli zingari. E a scanso di equivoci ha appena ribadito che i campi nomadi irregolari - che in città sono dodici - saranno spazzati via. Nel primo bilancio comunale cui ha messo mano, nell’autunno scorso, ha tagliato 112 mila euro dalla voce “scolarizzazione nomadi”, poi ne ha rimesso 20 mila ma alla voce “lotta alla dispersione scolastica”. Lei e lui si sono incrociati per caso qualche giorno fa all’inaugurazione di un birrificio nella scuola professionale frequentata dalla ragazza. La ragazza sinta - occhi chiari, sorridente - si è messa in posa accanto al sindaco - mezzo sorriso di circostanza - e si è fatta scattare una foto. Poi l’ha pubblicata sulla pagina facebook di lui (Massimo Bitonci, sindaco di tutti) e ha scritto: «Vede, sindaco, siamo tutti uguali. Io sono una sinta e lei non se n’è accorto. Anche noi sinti valiamo». Alle sei di ieri pomeriggio il blitz virtuale esibiva poco meno di 600 “mi piace”, una sessantina di commenti dei più vari - simpatici, ironici, maleducati, la solita umanità varia - ma soprattutto la risposta elegante del sindaco: «Non ho mai detto che siete diversi, ma che i bambini e le persone non devono vivere nei campi nomadi in quelle condizioni. Tu ce l’hai fatta, facendo una scelta, e sono contento. Noi tutti speriamo che ci sia un’opportunità anche per gli altri».

Tra i commenti, ce ne sono due di sei parole, curiosamente uno dopo l’altro: «Uguai par modo di dire, cocca», scrive una. E un’altra: «Una su mille ce la fa». Dibattito aperto. Uguali no, è vero: perché se è vero che oltre il 60 per cento dei rom presenti in Italia ha meno di 18 anni, è anche vero che di questi ce ne sono almeno 15 mila «a rischio apolidia», ossia in una condizione di inesistenza per la burocrazia italiana. Lo dice il rapporto annuale 2014 dell’Associazione 21 Luglio, appena pubblicato. Dove si trova conferma anche al fatto che uno su mille ce la fa. «Un bambino che vive in un campo nomadi - dice 21 Luglio - ha possibilità vicine allo zero di intraprendere un percorso universitario e neanche l’1 per cento di frequentare le scuole superiori». Colpa anche di una mancanza di strategia delle Regioni, cui sarebbe delegato dal piano nazionale il compito di attivare tavoli di coordinamento delle politiche per l’inclusione. Il Veneto quel tavolo non l’ha mai istituito, pur essendo la nostra un’area che ospita una «consistente percentuale di popolazione rom».

Eppure è a scuola che è cresciuto l’orgoglio della diciassettenne sinta. È (anche) lì che lei ce l’ha fatta. E come lei tanti: marocchini, moldavi, arabi, slavi, romeni. Cristiani, islamici, ebrei. La scuola si chiama Dieffe, sta a Noventa Padovana, ed è un centro di formazione professionale che accoglie 550 ragazzi (oltre a 250 adulti di età fra i 25 e i 35 anni) e fa corsi triennali del ramo alberghiero. Qui i ragazzi imparano un lavoro: da gelatiere, da birraio, da cuoco, da pasticciere, da bar manager, da web grafico, da contabile. Il 35 per cento degli iscritti non è italiano, ma al Dieffe non è un problema. «Anzi, spesso sono i servizi sociali o le scuole medie a contattarci per segnalarci casi delicati», racconta il direttore generale Federico Pendin. «Qui i ragazzi trovano una scuola che fa dell’alternanza fra didattica e laboratori la sua peculiarità. Hanno gratificazione nel fare - e fanno insieme, senza distinzioni di cultura e religione, come nei luoghi di lavoro - c’è un percorso di accoglienza ben strutturato e c’è soprattutto la prospettiva di imparare un lavoro, che per loro significa possibilità di inserimento sociale, di guadagno, di riscatto. Hanno una prospettiva immediata e a breve termine». L’84 per cento dei diplomati - dicono le statistiche - trova lavoro entro sei mesi. Ma quel che più conta è che al traguardo si arriva senza calpestare le differenze. «Non cerchiamo di colmare le distanze, ma di mettere insieme quello che unisce», dice il preside Luciano Gatti. «Ai corsi di cucina, per esempio, gli stranieri propongono spesso i loro piatti tipici. C’è una ricchezza che si può valorizzare». E perfino l’ora di religione, che si chiama Etica, accomuna piuttosto che dividere. La dispersione, in una scuola dove gli studenti sono attivi e coinvolti, è vicina allo zero. I problemi logistici, dal trasporto all’attrezzatura, sono risolti dalla scuola. «Abbiamo imparato che il cuore dell’uomo, da qualunque luogo provenga e quale che sia il colore della sua pelle, ha lo stesso desiderio di felicità e di bellezza», conclude Pendin. «Noi partiamo da qui».

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