La tavolozza del chimico che fa grande il pittore

Adriano Zecchina e “Alchimie dell’arte”: il lato sconosciuto dei quadri Così due discipline apparentemente lontane si scoprono sorelle
Di Nicolò Menniti-ippolito

di Nicolò Menniti-Ippolito

Diceva Primo Levi che i chimici sono avvantaggiati di fronte alla bellezza cromatica, perché comprendono la struttura molecolare dei colori. In effetti il colore ha a che fare tanto con l’arte pittorica quanto con la chimica, e senza la seconda, banalmente, la prima non esisterebbe.

Lo racconta bene Adriano Zecchina, uno dei maggiori chimici italiani, in “Alchimie nell’arte” (Zanichelli, pp 236, 13 euro), sintetico viaggio nella tavolozza dei pittori dal paleolitico ai giorni nostri. Per tavolozza si intende, ovviamente, la disponibilità di colori, che nel tempo chi ha dipinto ha avuto a disposizione.

Oggi un qualsiasi computer offre 64 milioni di colori, gli artisti del rinascimento superavano a stento i dieci. Una bella differenza, eppure gli artisti rinascimentali erano avvantaggiati rispetto a quelli medievali, e ancor di più rispetto a chi per primo, nelle grotte del paleolitico, ha cominciato a disegnare animali. Tutti usavano prodotti minerali, solo che nel paleolitico il tutto era a limitato a quello che era immediatamente reperibile, mentre più avanti si poteva ricorrere a minerali lontani e a trasmutazioni dei minerali che permettevano di andare oltre il nero del carbone, il rosso dell’ematite, l’ocra delle terre. Il cielo di Giotto brilla di lapislazzuli, Masaccio può affidarsi al rosso brillante del vermiglione, che viene estratto dal solfuro di mercurio.

E qui subentra l’alchimia, la possibilità cioè di modificare i minerali. Racconta, per esempio, Adriano Zecchina della capacità dei Maya di ottenere un blu indelebile, modificando le molecole dell’indaco: un vero esempio di nanotecnologia.

Dietro una pittura, dunque, c’è la tecnica. Diceva un grande storico dell’arte come Ernst Gombrich che “l’artista non può trascrivere ciò che vede”, perché è vincolato dai mezzi tecnici a sua disposizione, in primo luogo dai colori della sua tavolozza. L’uso del giallo da parte di Vermeer è straordinario, questo è certo, ma è fondamentale ricordare che quel giallo fluorescente, il giallo indiano, non poteva essere usato prima, semplicemente perché non esisteva.

Significa questo che più colori permettono una migliore qualità artistica? Adriano Zecchina è convinto di no, non è questo che vuole dimostrare.

Semmai che la pittura e la chimica, ma più in generale arte e scienza, non sono mondi separati, non appartengono a culture diverse: lavorano insieme oggi come hanno sempre fatto in passato.

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