La Venezia di Congdon

Colori e impulsi fino a rasentare l’astrazione: una città trasfigurata
Di Enrico Tantucci

di Enrico Tantucci

VENEZIA

«Queste "Venezie" sono tra i testi fantastici più alti che conti la città in questo secolo e certo tra i più significativi dell'invenzione di Congdon. Le scritture sono fitte e molteplici per intenzione e destinazione e il colore è inteso sempre come la condizione primaria e operativa su cui si esercita il segno necessitato da un impulso interiore di rimozione delle esperienze vissute e delle sofferenze patite, ma proponente anche una realtà diversa, un luogo alternativo all'ordine insensato del mondo». Così scriveva Giuseppe Mazzariol nel 1981 - che allora guidava da par suo il Dipartimento di Storia e Critica delle Arti di Ca' Foscari, un punto di riferimento per la ricerca artistica sul contemporaneo in città - di William Congdon e delle sue "visioni" pittoriche veneziane, nell'anno della mostra organizzatagli al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, che contribuì fortemente a farlo uscire dalla marginalità a cui l'aveva condannato il sistema dell'arte, anche per le sue scelte personali, compresa quella di convertirsi al Cattolicesimo.

Ora Ca' Foscari, purtroppo, un Dipartimento di Storia e Critica delle Arti non lo possiede più, ma ha saputo riunire però la figura di Mazzariol e quella di Congdon (una sala è dedicata al rapporto tra i due, con brani anche del loro carteggio personale) nel centenario della nascita del grande artista statunitense, con una mostra a lui dedicata, inaugurata ieri e aperta fino all'8 luglio nel grande spazio espositivo della sede centrale dell'ateneo veneziano, e curata da Giuseppe Barbieri con Silvia Burini. È proprio Venezia la protagonista della mostra, mutata negli anni sotto lo sguardo di Congdon - grandemente apprezzato anche da Peggy Guggenheim - che vi soggiornerà dal 1948 al ’60, uscito dall’esperienza per lui lacerante della Seconda Guerra Mondiale e dall’affermazione come espressionista astratto all’interno della nascente Action Painting, con le sue opere esposte alla newyorkese Betty Parsons Gallery accanto a quelle di Pollock, Rothko, De Kooning e Kline.

Ma Congdon esce rapidamente da «quel» sistema dell’arte per approdare in laguna e sentire la fascinazione di Venezia, del “derma” - per usare un termine mazzarioliano - dei suoi palazzi, inseguendo le superfici di Ca’ Dario, o di Piazza San Marco, ricreandoli, dipinti a olio e smalto, incidendone i contorni su masonite con il suo segno rapido e violento che ritroviamo anche nei disegni in mostra. Una Venezia che, negli anni - come ricorda anche Barbieri nel saggio in catalogo - si farà più bianca, meno densamente materica, quasi rarefatta, con il colore che diventa elemento compositivo specie nelle figurazioni marciane che diventano un’icona della sua pittura, fino al punto, in uno dei suoi dipinti, da riprodurre il Crocifisso al posto della Basilica, al centro della Piazza. Poi la pittura di Congdon - deluso anche da Venezia, a cui pure tornerà - si farà negli anni più quieta, larga e distesa, ai confini dell’astrazione, pur se l’artista rifiuterà sempre questa definizione e in mostra vi sono straordinari esempi di quest’ultima fase, compreso il dipinto (Senza titolo, del 1983) che donerà poi alla Fondazione Querini Stampalia proprio in memoria di Mazzariol. Bizzarra la scelta espositiva - forse dettata anche dall’esigenza di coprire lo spazio - di esporre, accanto ai dipinti originali, provenienti in buona parte dalla Fondazione Congdon, gigantografie incorniciate di altre opere dell’artista. Al piano terra, nell’ambito del progetto di ricerca “Venice Imago” sono presenti alcune piante topografiche della città rese interattive per ricercare con uno specifico software, vedute di altri famosi artisti (da Renoir a Monet, da Turner a Music) che hanno “rappresentato” Venezia.

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