La vergogna del lager di Monigo diventa un libro

Francesca Meneghetti: «Dovrebbero essere maturi i tempi per riconoscere gli errori fatti»

TREVISO. Erano in tanti a sapere. Eppure nessuno sapeva. Sono passati più di settant'anni, ma quel colossale buco nero nella memoria dei trevigiani sembra difficile da riempire. A colmare il vuoto e a riavvicinare la coscienza che è esistito, appena fuori le mura della città, una specie di lager dove si moriva e dove i bambini facevano la fame ci prova ancora una volta Francesca Meneghetti che con Istresco (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana) ha da poco pubblicato «Di là del muro. Il campo di concentramento di Treviso (1942- 43)». Avevamo già letto molto, sul passato per nulla edificante della caserma Cadorin: lì, lungo la strada Feltrina a pochi chilometri da piazza dei Signori, nel 1942 venne istituito un campo per internare gli slavi. Quelli repressivi: i ribelli, i sospettati di essere sensibili al messaggio partigiano o comunista, gli abitanti di zone di confine, chi viveva nei luoghi di azione partigiana. E quelli filo-fascisti, che temevano ritorsioni e pertanto andavano protetti. Se ne contarono dagli otto ai diecimila, di internati civili in transito per quello che tutti chiamavano il "Campo di Monigo", quasi a voler fare un distinguo ben preciso fra il capoluogo e il sobborgo ai margini della città. Quasi fosse e sia ancora adesso più opportuno e raffinato addossare alla periferia l'ombra dell’operazione. Ma il nome non fa la differenza, perché fra il luglio del '42 e il settembre del '43 vi morirono 230 persone. Cinquantatré i bambini che non sopravvissero a fame e malattie. Certo, Monigo non fu un campo di sterminio nazista. Gli slavi – quel popolo che secondo Mussolini non ci amava e non ci avrebbe mai amati – non indossavano una divisa. L'obiettivo non era l'annientamento della personalità, ma la pianificazione organizzativa messa in atto era quella tedesca e il campo era un luogo di patimento e dolore. Per la fame, per le malattie, per le umiliazioni subite, per la separazione forzata dalle proprie famiglie e anche per l'ozio quotidiano. Il libro di Francesca Meneghetti è uno studio approfondito e puntuale che ci restituisce non solo il ritratto degli internati, della loro vita da reclusi, delle malattie e delle cause di morte. La studiosa, dopo averci fatto capire da vicino cosa succedeva al di là del muro, sceglie infatti di capire cosa c'era al di qua, analizzando storicamente e storiograficamente il ruolo delle reti umanitarie che sapevano e che entrarono in contatto con il campo, le sue istituzioni, i suoi "ospiti". Al di qua del muro c'erano la Croce Rossa, la Chiesa, il prefetto. E c'era una città, Treviso, che ha dimenticato. Perché? Meneghetti cerca risposte confortate da ragioni storiche, ma non può fare a meno di chiedersi come mai, dopo tutte le ricerche e le pubblicazioni degli ultimi anni, il campo di concentramento di Monigo è rimasto un tema di nicchia, familiare solo agli specialisti. Perché Treviso non ha il coraggio di ricordare? «A distanza di settant'anni dagli eventi, oltre vent'anni dopo la dissoluzione della cortina di ferro, dovrebbero essere maturi i tempi per le istituzioni di rivisitare il passato e riconoscere, ciascuno per la propria parte, le responsabilità e gli errori del passato». Un coraggio di ricordare che finora è mancato. Come manca una lapide in memoria di chi nel nostro lager sotto casa ha perso la vita.

Sara Salin

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