Le rose della vita nell'inferno delle donne
Così le sopravvissute del lager di Ravensbrück hanno trasformato quel campo di dolore

Rose rosse dall'inferno, ma profumate di vita. Sono le donne sopravvissute al campo di concentramento femminile tedesco di Ravensbrück, simboleggiato da una rosa creata appositamente in laboratorio per ricordare le 90 mila vittime decedute dal 1939 al 30 aprile 1944, quando arrivò l'Armata Rossa. Il comitato Internazionale di Ravensbrück è sbarcato ieri all'Isola di San Servolo: le quaranta rose, in carne e ossa, provengono da tutta Europa, dalla Russia e dall'Ucraina, una quindicina sono testimoni ancora viventi e le restanti delegate, tutte riunite per l'appuntamento annuale organizzato quest'anno dall'ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati Politici). E' noto a tutti che i campi di concentramento sono visitabili, ma che siano proprio le sopravvissute a prendersene cura non è scontato, soprattutto quando la tutela della memoria si scontra con una questione geografica. Prendiamo per esempio il campo di Ravensbrück, conosciuto come «enfer des femmes», ubicato nella Germania orientale, nella regione del Brandeburgo, nei pressi del Lago Schwed. A detta delle ultime testimoni il paesaggio sta mutando e diventa sempre più dolce e fascinoso, i giovani vi si recano per fare pic nic e capita anche di vedere qualcuno fare il bagno nel lago. «Il lago è come un cimitero perché tutta la cenere recuperata nel campo, e parliamo della cenere di migliaia di persone, vi è stata gettata dentro. La cenere non si degrada e il lago non ha emissari, il che significa che non è solo un lago, ma un luogo sacro. E' qui che il giorno della commemorazione si gettano le rose rosse e il lago diventa un tappeto di fiori» racconta Giovanna Massariello, presidentessa dell'ANED e figlia di Maria Arata, giovane insegnante di scienze naturali arrestata a Milano per aver rifornito i partigiani del Lago Maggiore di medicine e medicamenti vari. «Un tempo, sempre nei pressi del lago, cresceva un canneto molto fitto. D'inverno le donne venivano mandate a tagliare le canne e a costruire una palizzata dove facevano correre quelle che poi venivano gettate nei forni o nelle camere a gas. Ora c'è un muretto che dà al luogo un aspetto idilliaco». Le donne di Ravensbrück non vogliono che l'inferno diventi una sorta di villaggio, come sta accadendo a quello vicino, a Sachausen, e non è una questione di mera conservazione del paesaggio. Insomma, coprire i luoghi del dolore è coprire il ricordo del dolore, e anche se sono speciali le rose rosse di Ravensbrück, le spine ci sono, eccome, basta ascoltare qualche testimonianza, come quella della figlia della signora Arata: «Il 4 luglio del 1944 arrestano mia mamma in casa, durante una riunione, trovando anche della stampa clandestina, come il discorso di Matteotti fatto da Turati. Arriva a Ravensbrück a ottobre, durante l'inverno, e torna a casa nell'agosto 1945, avventurosamente, travestendosi da uomo. In compagnia di altri due operai, uno di Firenze e uno di Mestre, Luciano Pardo, attraversano la Germania a piedi e si consegnano agli americani che li avrebbero portati in Italia». Il Comitato, diretto dalla sopravvissuta Annette Chalet, si incontra per condividere le esperienze di una vita che alla fine si è rivelata, paradossalmente, fortunata, quella delle rose nate sulle macerie. Molte si sono rifatte una vita e hanno avuto perfino dei figli, dato che il ciclo mestruale era dato ormai per scomparso. Alcune, come Arata, hanno portato con sé i bollettini, ovvero delle pagine, scritte a volte nel retro di carte geografiche, di come rinasceva la vita sociale nel campo dopo la liberazione. «Era una donna piena di vitalità e interessi. Dopo pochi mesi stava già insegnando, e poi incontrò mio padre. Tornammo tutti insieme in Germania quando il governo tedesco, verso il 1965, le diede 270 mila lire, 30 mila lire per ogni mese di deportazione, escluso il carcere. Lei diede soldi a noi figli e ci mandò alla Fiat. Ci disse: comprate una macchina che mi dovete riportare a Ravensbrück perché la migliore vendetta è tornare in cinque dove dovevo morire da sola». Anche molte venete, purtroppo ormai decedute, finirono in quel campo di concentramento. Sabato mattina dalle 11 in poi il Comitato incontrerà il pubblico. In questa occasione verranno ricordate le vite di alcune donne, come quella delle sorelle padovane Martini le quali, insieme a Padre Placido Cortese, organizzarono una rete di solidarietà per aiutare ebrei ed ex prigionieri alleati a scappare in Svizzera. Insomma, basta guardare le rose rosse in faccia per sentire che non stanno parlando di come conservare dei ricordi di morte, ma di come mantenere viva la passione per la vita.
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