L’eroe e la sua tomba, un colpo di genio

di FRANCESCO JORI
Una brillante operazione di marketing territoriale, la definiremmo oggi. Siamo verso la fine del Duecento, e a una Padova in gran spolvero politico, economico e sociale manca un testimonial prestigioso da spendere. Ci pensa nel 1274 un umanista padovano, Lovato Lovati, che da tempo coltiva la passione per lo studio dell’antichità classica e per l’archeologia. Durante uno scavo in contrada San Biagio per la ristrutturazione del ponte di San Lorenzo (quello che oggi si può vedere nel sottopassaggio della riviera dei Ponti Romani, tra università e prefettura), vengono alla luce due vasi pieni di monete e una cassa di piombo, che ne contiene una seconda in legno di cipresso: dentro ci sono uno scheletro e una spada. Lovati abita a due passi da lì, nella parrocchia di San Daniele; come sente dell’accaduto si precipita sul posto, e dopo un rapido esame si inventa un’autentica genialata: sono le spoglie di Antenore, proclama. Sottraendo così l’eroe troiano al mito delle origini fondative della città, e facendone uno sponsor strepitoso.
In Comune non ci pensano sopra due volte per allinearsi e cavalcare l’idea: reduce dal truce ventennio ezzeliniano, stretta tra le mire espansionistiche veronesi a ovest e la sempre più ingombrante concorrenza di Venezia a est, la Repubblica patavina prende al volo l’occasione di dotarsi di un look carico di richiami storici e letterari. Così, sotto la regìa di Lovati, fa indire solenni festeggiamenti, e a due passi dal luogo del ritrovamento fa erigere l’arca che ancor oggi vi compare. L’autore dello scoop detta di persona le due quartine in latino incise sui lati. E siccome il capomastro che ha effettuato materialmente il ritrovamento si chiama Capra, completa l’opera di marketing rispolverando un’antica profezia: “Quando la capra parlerà e il lupo risponderà, Antenore si troverà”. Lupo, in dialetto, si dice lovaro: da lì a Lovato, il passo è di appena una consonante. Ci vorranno secoli prima che l’impianto venga smontato. Nel 1985, il monumento funebre verrà riaperto e il suo contenuto sottoposto ad analisi accurate: rivelando che sempre di un guerriero si tratta, ma assai meno nobile e soprattutto meno datato; probabilmente uno dei tanti barbari transitati per il Veneto dopo la caduta dell’impero romano, quando Patavium non solo è stata ampiamente fondata, ma è già largamente decaduta.
D’altra parte, non è uno scoop di cartapesta: quella Padova è ricca di una stagione di grandi fermenti culturali, al punto da dar vita a quella che verrà chiamata la Scuola preumanista padovana. Suo massimo esponente è Albertino Mussato, che vanta straordinarie virtù letterarie: recupera i testi dei grandi autori dell’antica Roma, compone poemi in latino, si dedica a opere storiografiche, scrive la tragedia “Ecerinide” dedicata alla vicenda di Ezzelino. L’eccellenza della sua produzione gli vale nel 1315 il conferimento di una vera e propria laurea “honoris causa” nel corso di una solenne cerimonia nell’università patavina. Ma è anche uomo politico dedito a un forte impegno pubblico, difendendo l’autonomia e le prerogative del Comune contro le pretese delle grandi famiglie nobili, a partire da quella del veronese Cangrande della Scala, che sta coltivando mire espansionistiche in Veneto e ha messo l’occhio sulla dinamica realtà padovana. Albertino pagherà con l’esilio.
È a questo cenacolo che appartiene il citato Lovato dei Lovati, notaio di professione ma affascinato dallo studio dei classici: ammirato da Petrarca che lo riterrà un intellettuale mancato, addirittura il maggior poeta in latino della sua generazione, se non avesse subordinato questa sua passione al lavoro attorno alle scartoffie notarili. La carrellata sugli intellettuali di punta dell’epoca non può non includere infine Marsilio da Padova, figlio di una ricca famiglia, che deve però emigrare all’estero per trovare una collocazione all’altezza dei suoi meriti: va a Parigi, dove nel 1313 diventa rettore della Sorbona. E proprio nella capitale francese, nel 1324, scrive il “Defensor pacis”, che mette subito a rumore gli ambienti politici ed intellettuali di tutta Europa. Nel momento in cui lo scontro tra papato (Giovanni XXII) ed impero (Lodovico il Bavaro) tocca uno dei punti più aspri, Marsilio teorizza l’assoluta indipendenza dello Stato di fronte alla Chiesa, contesta il potere temporale di quest’ultima, ma sostiene anche che il vero depositario del potere esercitato dal sovrano è il popolo, dal quale discende l’autorità politica. Marsilio teorizza anche la divisione dei poteri, e l’esigenza di una riforma della Chiesa in senso democratico, contestando in particolare l’autorità suprema del papato. Il suo è un pesante attacco frontale al Vaticano, per il quale se la cava comunque con una semplice scomunica, che non risulta peraltro avergli turbato i sonni. Diventerà anzi consigliere di fiducia dell’imperatore Lodovico il Bavaro, che seguirà in Germania.(6-continua)
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