L’esodo disperato dei trentini in poche ore l’addio a tutto

Cacciati dagli austro-ungarici finiscono nelle “città di legno”, veri e propri lager Quelli fatti evacuare dagli italiani sono dispersi in 69 province, in tendopoli
Di Francesco Jori
01 Nov 1915 --- World War I. Serb refugees in German sector (Serbia). In November 1915. --- Image by © adoc-photos/Corbis
01 Nov 1915 --- World War I. Serb refugees in German sector (Serbia). In November 1915. --- Image by © adoc-photos/Corbis

di Francesco Jori

Due direttrici diverse, un’unica diaspora, una comune tragedia. Per gli italiani che all’epoca vivono in un Trentino parte dell’impero asburgico, la Grande Guerra vuol dire comunque esodo. La loro terra è ridotta a un ininterrotto campo di battaglia, che li costringe ad abbandonare case, beni e campagne per diventare di colpo profughi: l’esercito austriaco ne fa evacuare 70 mila verso nord, quello italiano 30 mila verso sud. Nel giro di pochi giorni, in certi casi addirittura solo 48 ore, vengono svuotati i paesi della valle di Ledro, della Vallagarina, della valle di Gresta, della Vallarsa e dell’alta Valsugana, del basso Isarco, dell’area di Vermiglio. Già il 20 maggio, cinque giorni prima della dichiarazione di guerra di Roma a Vienna, sui muri di Riva, Torbole, Linfano, Nago e Varone viene affisso l’ordine di evacuazione, da effettuarsi il giorno successivo, con ritrovo alla stazione ferroviaria di Riva del Garda. La popolazione viene invitata a portare con sé “viveri per cinque giorni, i documenti personali, una coperta di lana, posate con un piatto, un bagaglio non eccedente il peso di 10-15 chilogrammi”. Chi riuscirà a tornare a casa, lo farà solo quasi quattro anni dopo, nel gennaio 1919; per ritrovarsi nella miseria più totale, perché tutto è stato distrutto.

È durissimo il destino che attende le migliaia di trentini evacuati dagli austro-ungarici. La maggior parte di loro finisce in quelle che verranno chiamate “le città di legno”: veri e propri lager fatti di baracche, specie a Mitterndorf e Braunau, ma anche in altre località della Boemia e della Moravia. Le testimonianze che ci sono arrivate da chi ci ha vissuto rendono superfluo, anzi stonato, ogni commento. Così racconta la sua esperienza a Mitterndorf, iniziata nel 1915, Domenica Daldoss: “Arrivati nelle baracche stanchi e sudati deponemmo i bagagli, qui un pianto dirotto scoppiò dai nostri occhi, guardatici attorno la baracca era deserta senza porta, senza finestre, non un giaciglio”. Quasi due anni dopo la donna è ancora lì, in una situazione disperata: “Da più di 22 mesi che abitiamo in queste lande non abbiamo goduto ancora un giorno felice. Dio mio, e quando porrete termine a questo flagello?”. Prima del loro arrivo, Mitterndorf ha poco più di 150 abitanti, che diventano12 mila con i profughi. La vita ordinaria è dura, anche per le condizioni ambientali: nell’inverno del 1916 il termometro tocca i 26 gradi sotto zero. Tifo, morbillo, tisi, dissenteria e altre malattie falcidiano soprattutto vecchi e bambini; al punto che a fine febbraio 1916 bisogna costruire un nuovo cimitero, il vecchio è ormai saturo. Quando finirà l’esilio, nel 1918, i morti saranno stati oltre 1.900, quasi metà dei quali bambini con meno di 10 anni. Dicono i versi scritti da uno dei profughi: “Or sono qui solitario / con fier dolore in petto; / O Dio, fa che non muoia / lungi dal patrio tetto”.

Non meno pesante è la situazione di chi finisce a Braunau, come racconta in una sua lettera a un parente Giuseppina Filippi Manfredi: “Raminghi, derubati di tutto... Sabato scorso siamo partiti da Sacco a ore 1 ½ di dopopranzo; viaggiammo tutto il dopopranzo, la notte, la domenica e lunedì restammo fermi a Braunau A/Inn. Impossibile mi riesce a descriverti tutti i dolori di questa partenza, di questo viaggio interminabile. Di viveri non si trova niente e non si sa come campare. In certi momenti non so più cosa penso, mi sembra d’esser pazza. Sola con quattro figli e cola tema di saperti morto un dì o l’altro, povero caro! Se tu sapessi quanto soffro! Siam qui tutti in una casa; una stanza è cucina, le altre con quattro bracciate di paglia sono pel riposo, sono le nostre stanze da letto! Non abbiamo nessuna diferenza di militare, solo il rancio, che lo facciamo noi”.

L’accoglienza della popolazione locale è pessima. I bambini del posto prendono a sassate quelli trentini; una ragazza di 16 anni che ha raccolto una mela da terra viene assalita dai cani aizzati dai contadini, e pochi giorni dopo muore per idrofobia. La fame è la regola: vengono distribuite pagnotte da un chilo che devono bastare per quattro persone, e sono composte da farina di castagne, ossa macinate e paglia. Malgrado queste condizioni, la gente riesce a instaurare una sorta di ironica resistenza civile. Alla domenica, quando alla fine della Messa sono obbligati a intonare l’inno “Servi Iddio dell’Austria il regno”, i fedeli trentini lo cantano sull’aria del “Miserere”. In un’altra delle “città di legno”, Katzenau, dove gli internati sono oltre 1.700, un mix di fame e superstite capacità di ironia dà vita a una canzone sull’aria del “Nabucco” di Verdi: “Va pensiero, sull’ali dorate, / va ti posa sui dindi e sui polli / che ci mandan sì grassi e sì molli / dagli spiedi un profumo immortale! / Dei risotti le ambascie fatate, / i brodetti fragranti saluta, / o polenta, sì bella e perduta, / cogli uccelli del suolo natal!”.

Non va molto meglio ai trentini fatti evacuare dagli italiani e spediti in giro per il Paese, smembrati in 264 comuni di 69 diverse province. Ne parla Amabile Maria Broz, di Vallarsa, che si trova spedita a Legnago dove i profughi vengono alloggiati per mesi in una tendopoli sotto il controllo delle guardie, in condizioni precarie (“vecchi, bambini, ammalati, tutti abbiamo dovuto dormire su un po’ di paglia sparsa sulla terra e molti come i martiri morire”). Poi il gruppo passa a Vicenza, dove “siamo stati tutta la notte in piazza senza ricevere neppur una tazza di acqua, i bambini piangevano di fame ma nessuno ha potuto avere un po’ di latte neppure pagando; sul far del giorno ci hanno fatto montare in treno, quel treno era abbastanza comodo al confronto di quello che da Schio ci à condotti a Vicenza che era un treno delle bestie che puzzava come una sfronda (latrina) senza avere nei vagoni neppure una panca per sedersi, vi era solo sparsa un po’di paglia e su quella noi abbiamo dovuto sdraiarci… Siamo partiti da Vicenza diggiuni ancora, nei vagoni eravamo messi come le sardele che tanti doveva stare in piedi. Siamo arrivati a Verona gli ci anno fatto smontare e cambiare treno poi subito partiti senza ricevere neppure una goccia d’acqua”.

(6 – continua)

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