L’ira di Puppi «Quella mostra è solo marketing»

“Raffaello verso Picasso” a Vicenza condannata senza appello. Ecco i motivi
Di Lionello Puppi

di Lionello Puppi

Sull'elargizione dissennata da parte di una Fondazione bancaria - altrimenti benemerita per illuminate iniziative - della somma ingente di quattro milioni di euro a finanziamento di una duplice mostra sul "ritratto" e sul "paesaggio" da tener a Vicenza e a Verona per la cura di un noto specialista in carrozzoni espositivi ossessivamente dedicati a cucinare gli Impressionisti nelle salse più svariate e improbabili, m'ero già espresso or è qualche mese su "Il Giornale dell'Arte", nell'illusione patetica di concorrere a scongiurare la iattura.

Mi univo, in effetti, alle poche voci (in primis, di Fernando Rigon e ultimamente di Franco Miracco, consulente del Ministro dei Beni Culturali) levatesi a denunciare l'insopportabile gravità, in specie con i tempi che corrono, dello sperpero di una tal quantità di danaro che ben altrimenti si sarebbe potuto investire, a beneficio di un privato imprenditore e su un progetto neppur preventivamente sottoposto al vaglio di competenze autentiche e responsabili (le direzioni, ad esempio, dei Musei di Verona e Vicenza), privo di originalità e di spessore culturali ed anzi torbido e nebuloso, sfasato e insensato e perdipiù silenziosamente approvato in una congiuntura politica non proprio cristallina e d'aria pura. Invano, naturalmente, ché a sovrastare il suono di quelle voci parsimoniose provvedeva, nel silenzio di troppi che avrebbero potuto alimentarlo sino a renderlo ineludibile, il frastuono assordante delle fanfare dei "comunicati stampa" camuffati da informazione a invadere - su pagamento - gli spazi più frequentati dei giornali e delle televisioni.

Orbene e alfine. All'avvio di ottobre, soliti astanti il colto e l'inclita, officiata dalle consuete Autorità è avvenuta l'inaugurazione solenne della prima delle mostre annunciate, sotto l'intitolazione sibillina "Raffaello verso Picasso" (che, veramente, non significa nulla nel momento in cui quell'accoppiata di nomi celeberrimi funziona benissimo come uno specchietto per le allodole manovrato da uno spregiudicato e cinico marketing dell'arte per acchiappare i gonzi), entro lo spazio grandioso ma tutt'affatto incongruo, ed anzi ostile, all'esibizione in esso surrettiziamente insinuata. Le previsioni più sconfortate e pessimistiche vi si rivelano, in effetti, veritiere, ed è stato pronto a denunciarlo on line Tommaso Montanari che da tempo (e, ahimè, quasi vox clamantis in deserto) coraggiosamente si batte per rivendicare alla storia dell'arte la dignità di disciplina umanistica: ma conviene riprendere il discorso. Di che si tratta, dunque? Di un'accozzaglia d'opere - alcune di altissimo livello qualitativo, e quindi tanto più umiliate e offese - estranee al governo di qualsivoglia proposito storico e critico, ma fluttuanti in balia solo degli umori insondabili e misteriosi di chi le ha radunate, il quale un simile abuso ha l'improntitudine di rivendicare, e non si capisce se sia perché non ha idea di ciò che dice o perché il narcisismo, che non gli fa difetto, gli ha fatto pure perdere la testa. O, magari, per qualche altro motivo ancora, che tenteremo di adombrare più avanti. Sta di fatto che non esitava a proclamare, in un'intervista rilasciata all'inviata (che non batteva ciglio e trascriveva con mano ferma) di uno dei maggiori quotidiani nazionali (4 ottobre 2012), che la mostra "Raffaello verso Picasso" realizza «un percorso molto personale» («io voglio proprio rivendicare l'arbitrarietà delle scelte») e che «è inutile domandarsi perché c'è quel determinato artista e non quell'altro, non ha senso». Quelli che porta a spasso «sono tutti grandissimi maestri» ma che il metterli insieme appartiene «in maniera indissolubile al sentimento delle cose»: che però, si guarda bene dal confessare.

Senza metodologia.Non conoscenza e sapere, dunque; non una metodologia rigorosa sperimentata e costruita su ricerche pazienti e capace di esprimere una visione lucida, legittimata dalla fatica dello studio e dell'indagine inesausta, delle vicissitudini della storia e dell'arte nella storia; non una presenza attiva e costante al dibattito sulle problematiche ardue della disciplina storico-artistica. Macchè, quelli son trastulli di cui si diletta una camarilla, una consorteria elitaria di perditempo, le mille miglia distanti dalle esigenze del Pubblico che domanda, e gli si deve offrire, ben altro, posto, per soprammercato, che, quantunque pretenda la storia dell'arte d'esser scienza, di sicuro "non è perfetta".

Non certo, insomma, l'invito a vivere un'esperienza culturale, a moltiplicare le proprie cognizioni, ad accrescere la propria istruzione, a coltivare e stimolare lo spirito critico, a verificar tutto questo nell'attualità di un contesto spaziale (urbano; paesistico) immediatamente esperibile al di là delle pareti della mostra.

Esperienza mistica. Ma la profferta, viceversa, l'oblazione, per un passivo coinvolgimento, di una esperienza emotiva, anzi mistica, di un gruzzolo d'opere d'arte sottratte alla storia e consegnate inermi alla mediazione della sovranità esclusiva di un personale ed insondabile «sentimento delle cose», foriero di emozioni e di «ciò che riguarda l'anima» che «entrano nel circolo del sangue, del sogno, della memoria e della previsione». Ritratti, frattanto (ma anche qualsiasi altra cosa, purchè dotata di "sguardi") che si sarebbe potuto riscontrare «prima che giungano Raffaello e Giorgione» (e chissà perché, frattanto, è toccata proprio a loro) e, a rilegarne l'adunata estemporanea, per l'appunto «sguardi che ci osservano da una loro postazione in faccia all'immenso, un luogo quasi sospeso e innominabile perché senza nome», e via sproloquiando e vaneggiando, lungo le pagine di un prologo («in forma di - quasi- privata confessione») ad un catalogo infarcito di schede approssimative e avventurose, e sempre, a celar il vuoto torricelliano del pensiero, nei modi melensi, appiccicosi e insulsi del linguaggio di cui abbi. amo dato un saggio e ch'è lo stesso della tivù d'intrattenimento dei canali commerciali e di quelli Rai che li scopiazzano (insomma, di "c'è posta per te"), al quale sono adusi gli estimatori dei carrozzoni espositivi dei quali stiamo parlando, la cui forma mentis, senza loro colpa, precisamente da quei media è stata modellata.

Il problema, tuttavia, non è l'autore della trovata "Raffaello verso Picasso" (e, prima - per dirne un'altra degli "Impressionisti e la neve"): si tratta di un impresario del marketing dell'arte che, con disinvolta scaltrezza e disinibita abilità, fa molto bene il suo mestiere e ne trae personale e ingente profitto; il problema son il Potere politico e finanziario che quando non ruba a mano salva, si appropria arrogantemente di competenze che non possiede. Così, non solo lo chiama a realizzare le sue imprese, ma lautamente lo foraggia a fondo perduto, spacciandole (e, magari, in buona fede ritenendole) per operazione «di cultura» e «volano» (giusta una metafora; cara all'attuale politichese: in realtà, il volano è una mezza pallina di sughero o un gran ordigno rotante) «del l'economia e del turismo» di un'ampia realtà territoriale, mentre, come abbiam cercato di spiegare, nulla hanno a vedere con un'autentica cultura artistica, e son completamente estranee alla storicità dell'universo costretto ad ospitarle.

Iniziative sconnesse. Basta far caso, del resto, al disordine e alla sconnessione delle iniziative promosse a Vicenza nell'occasione dell'apertura della mostra "Raffaello verso Picasso" all'interno della "basilica", di cui veniva a celebrar incoerentemente il testè concluso, encomiabile, restauro, nel momento, però, in cui si inaugurava da un'altra parte il neonato museo palladiano, con gli oratori di turno (e l'eco giornalistica) affannati a gridar la gloria dell'architetto, beninteso perché senza di lui non ci sarebbe stata la "Casa Bianca" a Washington né la villa di Jefferson a Monticello, invece d'additarne altrove la manifestazione strepitosa del genio: Che, in "basilica" risiede nella continuità strutturale e formale stabilita tra il sogno classicistico impalcato dalla cadenza delle logge (ch'è quanto gli spetta) e l'imponente macchina gotica che esse rivestono, imperniata sull'immenso salone e costruita da un talento innominato (cui s'è voluto affibbiare il nome abusivo di Domenico da Venezia) più di un secolo prima, nel solco della grande tradizione ingegneristica patavina due-trecentesca di un Leonardo Zise Bocaleca e di fra' Giovanni degli Eremitani. E al "pubblico" sarebbe forse stato il caso di farglielo sapere, anziché propinargli "postazioni" di "sguardi" "in faccia all'immenso", magari allestendo, con spesa di gran lunga inferiore e coinvolgendo giovani ricercatori, una mostra su Vicenza prepalladiana. E con buona pace del "volano".

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