Lissitzky e Radice l’ibrido dell’arte nel tempo delle utopie

di Sileno Salvagnini
La doppia mostra che il Mart ha appena inaugurato in due sale speculari (“El Lissitzky. L’esperienza della totalità” e “Mario Radice. Architettura, numero, colore”, entrambe aperte fino all’8 giugno, cataloghi Electa) induce a una domanda: cosa possono avere in comune un artista russo e uno italiano, pressoché coevi, che furono protagonisti nei loro Paesi nella prima metà del Novecento? La risposta è semplice: entrambi sono personaggi a mezza via fra l’architetto e l’artista figurativo che diventano protagonisti in discipline estranee alle loro specifiche formazioni; ma soprattutto autori di progetti utopici che rimangono per lo più sulla carta.
Per quanto riguarda Radice, il primo studioso dopo gli anni del secondo conflitto mondiale ad occuparsi in modo sistematico di astrattismo italiano facendo luce su quella lontana vicenda è stato Paolo Fossati - curiosamente quasi dimenticato in catalogo - in due opere pionieristiche: “L’immagine sospesa” e “Il Novecento”, che reca in copertina la foto della Scultura 15 (1935) di Melotti qui esposta. Ma si sa che quando si muore relativamente giovani, e soprattutto, non si fa parte organica - come di certo non faceva Fossati - dell’università, si muore, per così dire due volte. Fossati partiva da alcune annotazioni di fondo: “astrattismo” italiano e/o “razionalismo”? E ancora: è vera la mitologia che parla di “ottimismo” e “progressismo” in questi artisti? Che sono, nella mitica Como degli anni Venti e Trenta, oltre a Mario Radice, Cesare Cattaneo, Manlio Rho e soprattutto Giuseppe Terragni. E poi Anton Atanasio Soldati, Lucio Fontana, Mauro Reggiani, Luigi Veronesi, Alberto Magnelli, Enrico Prampolini, Bruno Munari, Osvaldo Licini. Questi ultimi riconducibili a esperienze diversissime le une dalle altre, che trovano però punto di confronto principalmente alla II Quadriennale romana del 1935 e alla celebre Galleria del Milione di Milano. Se si paragonano i quadri degli autori fin qui nominati - il solo Fontana è presente con un quadro poco rappresentativo del tema - troviamo almeno due aspetti paradossali. Il primo è il forte grado di “irrazionalità” nei più significativi di tali artisti (in primis Licini, e poi Fontana, Magnelli, Prampolini), che non interpretano la geometria come una sorta di Dio maggiore, ma solo quale mero strumento. Il secondo, soffermandoci sugli architetti, che anche questi, alla fine, hanno una forte vocazione per l’arte figurativa. Del resto, Le Corbusier non commemorava il grande Terragni definendolo una sorta di “plasticien”, di scultore, essendo gigantesche sculture le sue opere maggiori? Ma anche Soldati, e Pietro Lingeri, e lo stesso Cattaneo - che progetta con Radice la celebre Fontana di Camerlata alla VI Triennale di Milano del 1933 - oltre ovviamente a Radice, hanno nel sangue questa vocazione non architettonica. Quanto a quest’ultimo. , varrà la pena di ammirare il ciclo dei Crolli (1939 - 1942), disegni in cui, scrive in catalogo Fulvio Irace, «si “respirava un’aria più di crepuscolo che di certezze».
Radice, che aveva avuto una formazione eterogenea prendendo lezioni di pittura come autodidatta, e lavorando come contabile e poi in un’industria cartiera, farà tesoro di alcuni viaggi in Argentina ma soprattutto a Parigi fra anni Venti e Trenta. Realizzerà, fra l’altro, il progetto di una grande Plastica murale astratta per la casa del Fascio di Como di Terragni, al pari di molti altri non realizzato.
Se per la mostra precedente sono stati utilizzati opere e fondi archivistici del Mart, per la grande mostra su Lissitzky sono invece state impiegate opere provenienti da varie parti d’Europa e d’Oltreoceano, in particolare dalla Galleria Tret’jakov di Mosca. Ebreo russo di nascita, Lissitzky (1890 - 1941) si trasferisce per studiare in Europa e si laurea in ingegneria in Germania nel 1914. Nel 1919 è chiamato da Chagall a Vitebsk a insegnare arte. Qui lavorava anche il grande pittore russo Malevìc. Come spiega la curatrice Oliva Marìa Rubio, con lui progettò «un nuovo linguaggio, il suprematismo rivoluzionario, che fu utilizzato non solo in pittura, ma anche nel graphic design, in alcuni progetti architettonici e teatrali, nella produzione di ceramiche, nella teoria dell’educazione e nella propaganda».
Insieme a lui all’inizio del decennio successivo elabora i cosiddetti “Proun”, letteralmente “Progetti per l’elaborazione del nuovo”, intesi a superare la forma tradizionale del quadro. Nella Russia rivoluzionaria dell’epoca, secondo l’autore, il Proun sarebbe stato una sorta di passaggio fra il quadro e le tre dimensioni architettoniche. La natura utopica di queste intenzioni riflette quella del Vuchutemas - acronimo di Atelier Superiore di Arte e Tecnica di Mosca, attivo nel decennio 1920-30 - sorta di analogo del Bauhaus, dove si trova a insegnare in compagnia di un altro grande artista del costruttivismo, Aleksandr Rodcenko. Lissitzky torna presto in Europa rappresentando un tramite fra la Russia ed artisti come Hans Arp, Piet Mondrian e Kurt Schwitters. A Berlino, ideò una fiaba suprematista, la Storia di due quadrati, basata su un’idea elementare, la cooperazione fra due quadrati, uno nero e uno rosso, che assistono un cataclisma che rimette in discussione il vecchio ordine per annunciarne uno nuovo.
Un nuovo colpo di fulmine per l’artista fu la fotografia. Dagli anni Venti in poi le sue opere saranno per lo più eseguite nel campo della tipografiae della progettazione utopica di grandi edifici poi non realizzati come la Sede centrale della Pravda, la Casa dell’Industria, il Parco Gor’kij. Un’ulteriore tappa sarà l’incontro nel 1929 col regista documentarista Dziga Vertov. I due si influenzeranno reciprocamente, poiché Vertov erediterà da Lissitzky la tecnica dell’esposizione simultanea, mentre quest’ultimo dal regista imparerà a utilizzare il materiale fotografico come sequenza di un film documentario. Purtroppo, benché progettata, la versione cinematografica della Storia di due quadrati non fu mai realizzata.
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